Data feminism: intervista a Donata Columbro

Secondo l’ultimo report dell’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere, sono necessari ancora 60 anni prima di raggiungere la completa parità di genere in Europa, sempre supponendo che i livelli di crescita rimangano costanti. Ma possono questi dati (e i dati in generale) aiutarci davvero sulla strada del cambiamento? Ne abbiamo parlato con Donata Columbro, giornalista, autrice del libro Ti spiego il Dato e socia fondatrice della Dataninja School.  

Ti definisci una femminista dei dati, ma cosa significa esattamente? 

«Anzitutto è importante capire che i dati hanno dei limiti. Il modo in cui i dati vengono raccolti, elaborati e diffusi è tutt’altro che neutro. Il data feminism è un approccio alla data science basato sul femminismo intersezionale, ovvero che guarda all’intera società e alle dinamiche di potere e privilegio.  Il fatto che vengano raccolti dei dati su un certo argomento, o non raccolti, è una questione di dinamiche di potere. Il data feminism cerca di individuare chi detiene questo potere, il potere della raccolta dati, dell’analisi e della visualizzazione. Si interroga su chi è beneficiato dall’esistenza di quei dati o dalla non esistenza di quei dati e su chi invece è discriminato».  

Grazie al data feminism quindi possiamo approcciare ai dati in maniera più consapevole? 

«Sì, ma non solo. Ci aiuta anche a vedere il dato nascosto, quello che non viene ricercato, il lavoro invisibile. La condizione di donne e uomini che non rientrano nelle raccolte dati ufficiali, ma che invece esistono.  

Penso ad esempio ai dati che oggi vengono raccolti sul lavoro gratuito fatto a casa dalle donne, prima questi erano invisibili, adesso invece grazie al fatto che qualcuno ha deciso di raccoglierli finalmente si comincia a parlare di lavoro non retribuito svolto dalle donne in ambito familiare».  

A proposito di donne e lavoro, cos’altro ci raccontano i dati? 

«Purtroppo ci raccontano di una disparità che riguarda in particolare tre aspetti: l’accesso alle posizioni più avanzate di carriera, lo stipendio (gender pay gap) e appunto la distribuzione di carico di lavoro familiare non retribuito. Questo emerge non solo dalle statistiche raccolte in ambito nazionale, ma anche a livello europeo. Quello che secondo me è importante sottolineare è che non di rado questi dati vengono commentati come se la responsabilità fosse delle donne stesse. Prendiamo ad esempio il gender pay gap: si tratta di un fenomeno legato al fatto che la maggior parte delle donne svolge un part-time e quindi guadagna meno, ebbene mi è capitato spesso di sentire in azienda frasi come “date alle donne il part-time e saranno contente, basterà loro quello”, come se la misura del part-time in qualche modo fosse collegata alla situazione di essere donna e/o madre».  

Però un figlio richiede un investimento di tempo non indifferente… 

«Certo, ma c’è anche un altro dato che viene rilevato altrettanto frequentemente che il gender pay gap: la disparità di accesso a posizioni più avanzate tra le donne che hanno dei figli e gli uomini che hanno dei figli. Questo vuol dire che la discriminante non è avere un figlio in sé, ma se ad averlo è la donna oppure l’uomo, ed è questo secondo me il dato più interessante da valutare, perché è quello che ci dice che c’è un approccio diverso nella gestione aziendale e di contesto in cui c’è il welfare. È come se la società sospetti che in qualche modo sia la donna a interrompere la sua carriera, a rallentare, a non essere presente nei luoghi di potere e decisione e quindi dove eventualmente si può salire e rompere il famoso tetto di cristallo». 

Quindi si può fare di più per maternità e congedi parentali? 

«Naturalmente dal punto di vista fisiologico la donna che ha un figlio è costretta a fermarsi per un certo periodo. Per fortuna in Italia le donne hanno la possibilità di fermarsi prima e dopo il parto, un diritto tutt’altro che scontato se pensiamo ad esempio agli Stati Uniti, dove le ricadute dal punto di vista dell’occupazione femminile sono più drastiche e lo sono state ancor di più con la pandemia. Il fatto che ci sia questo diritto dunque è sacrosanto, che non sia esteso ai padri però, come se la loro figura fosse accessoria in qualche modo, mette in discussione tutto, anche dal punto di vista aziendale. Se ci fosse una condizione di parità sicuramente le barriere all’ingresso per posizioni più avanzate si allenterebbero.  

Pensiamo anche ai dati su quella che viene chiamata la motherhood penalty, cioè la penalità dell’essere madri, quante sono le donne che si licenziano nei primi 5 anni di vita del figlio? Quanti invece gli uomini? Basta questo per dirci che nella gestione familiare chi rinuncia al lavoro è quasi sempre la donna. La giustificazione a questa scelta è che spesso è perché l’uomo ha lo stipendio più alto, ma perché l’uomo ha lo stipendio più alto? È un cane che si morde la coda! Sarebbe interessante esplorare ad esempio quante fra queste donne che si licenziano aprono partita iva  per continuare a lavorare e avere fuori quella flessibilità che non gli è garantita all’interno dell’azienda». 

Quindi le aziende possono giocare un ruolo determinante in questo senso e possono farlo anche grazie ai dati… 

«Certo, pensiamo alla raccolta dati interna: il sapere, per esempio, quali e quanti dei propri dipendenti hanno avuto dei figli. Questo è un dato abbastanza noto rispetto alle dipendenti donne, mentre spesso non è così per i dipendenti uomini perché, a differenza della maternità, è tutto facoltativo quello che loro possono richiedere. Non avendo queste informazioni le aziende non possono agire efficacemente sull’offerta di welfare, c’è un pezzo importante di vita dei propri dipendenti che sfugge alla loro conoscenza e che impedisce loro di offrire servizi, non solo per le donne, ma per il benessere delle famiglie nel loro complesso».  

Quali sono i vantaggi, soprattutto per le PMI, di una politica aziendale che tende ad annullare la disparità di genere? 

«Se si vogliono attirare talenti allora è fondamentale creare un ambiente che sia il più aperto possibile alle diversità. Se non capisco, se non raccolgo i dati su questo, se non faccio verifiche interne, se non conosco le situazioni che vivono le persone che lavorano con me, il rischio è di peggiorare la qualità del lavoro in generale. Se la qualità del lavoro cala le conseguenze si vedono subito, soprattutto nelle piccole aziende.    

Ma come possono le PMI avvicinarsi a un uso efficace dei dati? 

«Non c’è una ricetta immediata per dire alle persone e alle aziende di interessarsi a utilizzare i dati per analizzare una situazione. Si tratta di un atteggiamento, un approccio, quel che è certo però è che a un certo punto si troveranno nella necessità di doverlo adottare questo approccio. Fortunatamente si stanno moltiplicando anche le iniziative di alfabetizzazione in questo senso. Penso ad esempio al lavoro di startup come JobPricing che aiuta le aziende a valorizzare il capitale umano grazie anche a un approccio più umano e consapevole dei dati, sia interni che esterni». 

Prima di salutarci, puoi dirci quello che ci raccontano i dati sulla presenza delle donne nella scienza? 

«Fortunatamente i dati ci dicono che il gap tra la presenza di uomini e donne in questo settore va pian piano riducendosi, anche se rimangono forti disparità rispetto ad esempio all’accesso al mondo accademico e a ruoli direttivi, quindi sempre legate al potere decisionale e all’avanzamento di carriera. Anche dal punto di vista del mondo della ricerca e della scienza le dinamiche sono le stesse che vediamo negli altri settori: quando una donna mette in pausa, magari durante il dottorato, tornare a fare ricerca attiva diventa molto più difficile rispetto a chi non si ferma. Quella pausa è di per sé in qualche modo un gap e quando sei costretta a prenderla, magari perché fai un figlio, il rientro poi è molto più faticoso. Un’altra cosa che dicono le persone che si occupano di gender gap nella scienza è che sarebbe utile andare a esplorare più nel dettaglio cosa ci dicono i dati per tipologia di materie scientifiche, sarebbe interessante avere sempre più dati che ci mostrino la diversità nel panorama. Sicuramente però c’è tanto lavoro da fare, soprattutto dal punto di vista culturale e di spinte sociali. Pensiamo anche solo alla rappresentazione di una scienziata come Samantha Cristoforetti che va in missione sulla stazione spaziale internazionale e le viene chiesto a chi abbia lasciato i suoi figli, a quale altro astronauta sarebbe stata fatta questa domanda?» 

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