Perché le donne CEO sono così poche in Italia?

Sono ancora troppo poche le donne CEO in Italia. È quanto emerge dall’ultimo rapporto Gender Diversity Index  di EWOB (European Women on Boards) che analizza la partecipazione delle donne alla corporate governance delle più grandi società europee quotate nell’Indice STOXX 600 Europe o, in alcuni paesi, negli indici delle borse nazionali. La ricerca ha interessato 19 paesi e 668 aziende, di cui 33 italiane.   

Il valore dell’indice è compreso tra 0 (nessuna equità di genere) e 1 (massima equità di genere), in Italia è di 0,62 e ci posiziona al sesto posto con una media leggermente superiore a quella europea (+0,03) e inferiore di 0,10 punti rispetto al paese con il miglior punteggio, ovvero la Norvegia (0,72). Al secondo posto la Francia, seguita da Regno Unito, Finlandia e Svezia. Il rapporto indica anche in quali paesi è presente un vincolo normativo legato alle quote femminili nei consigli di amministrazione, com’è per Italia, Francia e Norvegia, ma non per Regno Unito, Finlandia e Svezia.  

Donne CEO

Delle 33 aziende italiane analizzate, 23 erano presenti anche nell’indagine del 2020 e di queste ben 12 hanno diminuito il loro punteggio, mentre il miglioramento più significativo è stato registrato da Unicredit.   

Nonostante la buona posizione in classifica, l’Italia è portatrice di un’evidente contraddizione. Infatti, se da un lato, tra le aziende analizzate solo il 3% dei CEO è donna (la seconda percentuale più bassa sul totale dei paesi analizzati e un’ulteriore diminuzione rispetto al 2020 quando la quota si attestava intorno al 4%), dall’altro i consigli di amministrazione sono costituiti per metà da donne. Dunque va da sé che le aziende non compiono ulteriori sforzi oltre a quelli imposti dalla legge.  

Ma è davvero solo una questione normativa? No, naturalmente non è solo questo. Basti pensare che ancora oggi il 70% delle donne rinuncia a seguire i propri progetti per mancanza di fiducia in sé stesse.  È quanto riporta GRLS, una startup dedicata a “ispirare, formare e connettere le leader di domani”. Proprio in questi giorni ha lanciato la campagna #ladomandagiusta tappezzando Milano di manifesti dove campeggiano a caratteri giganti domande come: “Quando è stata l’ultima volta che hai chiesto un aumento?” 

La domanda giusta

Intervistata da Vanity Fair, la fondatrice di GRLS, Benedetta Tornesi, ha spiegato che l’obiettivo della campagna è quello di attivare e sensibilizzare le persone nei confronti di alcune tematiche legate al gender gap. La consapevolezza della necessità di un cambiamento parte infatti dal porsi la domanda giusta. La campagna getta luce sulla questione culturale e sociale, che spesso passa in secondo piano rispetto a quella normativa ed economica. In realtà è altrettanto essenziale, se non di più. Non solo le donne hanno meno fiducia in sé stesse, ma quasi la metà di loro fatica a trovare supporto nel proprio gruppo di amici e ha timore a chiedere i riconoscimenti che merita. 

Ancora, sulla pagina della campagna lanciata da GRLS viene ricordato che la stima a livello globale del tempo necessario per colmare la disparità di genere è pari a 135,6 anni. Le cause principali di questa disparità sono sì la scarsa presenza di donne in posizioni manageriali e di leadership e una retribuzione inferiore rispetto agli uomini, ma anche gli ostacoli legati alla maternità, le difficoltà a conciliare lavoro e famiglia e la mancanza di una costante educazione e accesso a quelle risorse che offrono opportunità di crescita professionale. 

Lui/Lei

È importante affrontare questi temi anche e soprattutto in quei contesti dove lo sviluppo economico e sociale è molto progredito. Il rischio infatti è quello di sottostimare o addirittura non considerare il problema. Pensiamo ai luoghi di lavoro e all’iperindividualismo, che difficilmente offre alle donne la possibilità di trovare supporto. O alle manifestazioni di sessismo, a volte involontario, che non è solo appannaggio maschile, ma anche femminile. Come ci ha fatto notare Hella Network nella sua interessantissima guida al sessismo sui posti di lavoro, lo siamo tutti, perché cresciuti in una cultura sessista. Dei tanti esempi che si possono trovare in questa guida forse il più emblematico è: «Lui è autorevole, lei è aggressiva». Incredibile, ma vero. «Da un’analisi svolta in varie aziende statunitensi nel settore delle alte tecnologie, risulta che alle lavoratrici vengono più spesso rivolte critiche personali. A loro si consiglia di abbassare il tono e vengono giudicate “autoritarie, irritanti, stridule, aggressive, emotive e irrazionali”. Di tutti questi aggettivi, l’unico che compare nelle valutazioni dei dipendenti maschi è “aggressivo”, usato due volte “per esortare la persona in questione a esserlo di più”». Sono certa che non sarà difficile pensare a esempi simili nei nostri contesti lavorativi. È incredibile che l’aggressività venga considerata negativa per le donne e positiva per gli uomini, incitando questi ad esserlo di più e le prime a esserlo meno, anche se magari il ruolo professionale è lo stesso.  

Ben vengano le donne CEO quindi, ma attenzione a guardare la luna e non il dito. La strada è ancora lunga e forse possiamo accorciarla se dirigiamo i nostri sforzi, come singoli e come collettività, verso un approccio onnicomprensivo (lavoro, cultura, formazione, società) che possa finalmente dare risultati soddisfacenti. 

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