Il lavoro culturale paga?

Con la cultura non si mangia è un luogo comune, un adagio ripetuto da genitori preoccupati dal futuro professionale dei figli o da politici e istituzioni incapaci di riconoscere l’importanza socio-economica della cultura, delle arti e dello spettacolo. Nella risoluzione del Parlamento europeo Ripresa culturale dell’Europa, del settembre 2020, si legge invece che «la pandemia ha messo in luce il reale valore sociale e il peso economico delle industrie e dei settori culturali e creativi per la società europea». Oggi in Europa ci sono 7,2 milioni di occupati in ambito culturale (dati Eurostat del 2020); in Italia sono 791mila. Certo, per la maggior parte di loro non è facile, soprattutto nel nostro Paese, tra contratti a termine, poche tutele, scarse garanzie di occupazione. Basti pensare che l’Italia è il paese con il maggior numero di studenti iscritti a corsi di istruzione superiore dell’area culturale (oltre alla nazione con il maggior numero di patrimoni Unesco al mondo), eppure ha una media di occupati nel settore culturale inferiore a quella europea (3,5% contro 3,6%), una situazione aggravata dalla pandemia. Il periodo appena trascorso, però, può essere anche l’occasione per ripensare il futuro dell’occupazione culturale. Di tutto questo abbiamo parlato con il professor Antonio Taormina dell’Università di Bologna, componente del Consiglio superiore dello spettacolo del ministero della Cultura e curatore del libro Lavoro culturale e occupazione (FrancoAngeli), uscito nel settembre 2021 . 

Professor Taormina, che ruolo può giocare la cultura nella ripresa economica e soprattutto sociale, dopo due anni di pandemia? 

«La cultura è fondamentale per la ripresa del Paese. È ormai diffusa la consapevolezza che la cultura è direttamente collegata allo sviluppo economico in quanto favorisce l’attivazione di processi innovativi, fermo restando che la filiera produzione-distribuzione-promozione della cultura abbraccia molti altri comparti, dal turismo ai trasporti, sino alla formazione, e all’indotto che ne deriva. Rappresenta anche una componente centrale per la vita del Paese in termini di benessere delle persone, di valori identitari, di inclusione, di democrazia». 

In cosa devono migliorare l’Europa e soprattutto l’Italia per tutelare e favorire lo sviluppo del lavoro culturale? 

«Dall’Europa arrivano segnali importanti, come ad esempio la Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2021 sulla situazione degli artisti e la ripresa culturale nell’Unione europea che invita gli stati membri ad adottare misure eque e condivise per gli artisti. Dal punto di vista dell’occupazione esistono straordinarie potenzialità, ma finita l’emergenza il ricorso al sostegno dovrà essere sostituito da una prospettiva di investimento; attualmente l’Italia è ultima in Europa per quanto riguarda la spesa pubblica in cultura e terzultima nella quota percentuale del PIL. Com’è noto, molte aspettative sono riposte nei provvedimenti legati al PNRR, di cui vedremo gli effetti nei prossimi anni. Riguardo alle tutele si stanno facendo passi avanti, ma c’è ancora molto da fare». 

Quali sono i principali ostacoli che incontrano oggi artisti e lavoratori dello spettacolo? 

«Sono molte, dall’inadeguatezza delle tutele previdenziali, alla discontinuità e precarietà e dell’occupazione. La pandemia ha enfatizzato le criticità strutturali di quelle realtà dello spettacolo, per lo più piccole e medie imprese, che operano ai limiti della sostenibilità finanziaria, e ha avviato una grave crisi occupazionale legata da una serie di concause – prima tra queste la contrazione dei consumi – che potrebbe protrarsi nel medio e nel lungo termine e penalizza in primo luogo i soggetti più deboli sul versante contrattuale. Anche per questo, nel giro di un anno sono stati presentati ben nove progetti di legge di riforma in materia di lavoro nello spettacolo, da rappresentanti di gran parte delle forze politiche. In questo periodo si sta discutendo nelle sedi parlamentari dell’introduzione del reddito di discontinuità, che riconosce la specificità del lavoro nello spettacolo, laddove non si limita al momento dello spettacolo ma è fatto anche di prove, di studio, di creatività». 

Nel 2020 l’economia culturale e creativa ha registrato una perdita di volume di affari del 31%. Nel 2021 e (in previsione) nel 2022, come sta andando? Si vedono segnali di ripresa? 

«Il 2021 ha visto segnali di ripresa, seppur deboli. Il 2022 avrebbe dovuto essere a tutti gli effetti un anno di ripresa, ma ovviamente sarà condizionato dall’evolversi del conflitto in atto: è dunque difficile in questo momento affrontare il tema».  

Quanto è importante il lavoro della scuola per creare una maggior domanda di cultura e dare valore alle professioni della cultura? 

«La scuola ha un ruolo determinante nell’acquisizione degli strumenti critici e cognitivi veicolati dalle attività culturali. Oggi non è difficile prevedere le conseguenze negative negli adolescenti della mancata alfabetizzazione alle arti visive, al teatro, alla danza, alla musica, causata dalla sospensione dovuta alla pandemia. La scuola crea implicitamente domanda di cultura, suscitando talvolta interesse per il lavoro culturale. Il nostro è il paese europeo con la maggiore percentuale di studenti nell’ambito culturale dell’istruzione superiore (il 18,8% del totale), a conferma della vocazione delle nuove generazioni verso il lavoro nella cultura: un dato legato al nostro portato storico da non sottovalutare». 

Come sarà tra dieci anni il lavoro culturale in Italia, secondo lei? 

«Dobbiamo avere consapevolezza che i settori culturali e creativi sono in continua evoluzione, lo sono i profili professionali di chi vi opera, ancor più lo sono le competenze. Nei prossimi dieci anni probabilmente si imporranno nuove professioni attestate su livelli sempre più alti di specializzazione, complessivamente assisteremo a una ibridazione delle competenze. Ci attendono nuove importanti sfide». 

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