Il principio di parità retributiva secondo la direttiva 2023/970

Dopo l’approvazione da parte del Parlamento Europeo lo scorso 30 marzo, l’adozione il 10 maggio e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’UE la settimana successiva, la direttiva 2023/970 è entrata in vigore.

 Come recita l’incipit del documento, l’obiettivo di tale norma è rafforzare l’applicazione del principio di parità retributiva tra uomini e donne negli Stati membri, per uno stesso lavoro o per un lavoro considerato di pari valore. La strategia individuata dalla direttiva per limitare episodi di discriminazione retributiva di genere è la cosiddetta trasparenza salariale: i datori di lavoro sono infatti tenuti a fornire informazioni sui livelli di retribuzione in tutte le fasi del rapporto di lavoro, a partire da quella iniziale dei colloqui, intervenendo nel caso in cui si registrino divari salariali di genere superiori al 5%. La direttiva prescrive l’obbligo per gli Stati membri di prevedere sanzioni proporzionate ed efficaci per le imprese che non rispettano tali indicazioni, introducendo esplicitamente un diritto al risarcimento del danno per le vittime di discriminazione. 

Analizzando con attenzione il testo della normativa, sono diversi gli aspetti rilevanti da sottolineare. Se si considera l’ambito di applicazione della direttiva, destinatari degli obblighi sono i datori di lavoro, senza alcuna distinzione tra pubblico e privato. La platea di lavoratori contemplata dalla misura è ancora più ampia: il considerando 18 si riferisce infatti anche al personale a tempo determinato, parziale o impegnato in un rapporto di lavoro con un’agenzia interinale. Il legislatore dell’Unione non esclude il fatto che ulteriori categorie di lavoratori – penso per esempio ai lavoratori impiegati dalle piattaforme digitali o a quelli a voucher – possano essere considerate destinatarie di tali contenuti, purché siano soddisfatti i criteri che connotano un rapporto di lavoro subordinato secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea. Attraverso questa “clausola aperta” il raggio d’azione della direttiva viene notevolmente allargato, permettendo a soggetti finora esclusi di partecipare a tali novità.

Prendendo invece in esame il contenuto posto dalla direttiva – in particolar modo i vari considerando – pare evidente come la norma in oggetto voglia intervenire sui limiti della precedente disciplina in materia. Introducendo l’obbligo di trasparenza salariale, la norma tenta di rimuovere l’opacità tuttora presente nei sistemi retributivi, facendo così emergere eventuali discriminazioni salariali di genere. Retribuzioni diverse tra lavoratori uomini e lavoratrici donne possono essere giustificate solamente in riferimento a criteri neutri e oggettivi, quali le competenze, l’impegno, la responsabilità e le condizioni di lavoro. Come menzionato in precedenza, qualora si dovessero verificare differenze di retribuzione sulla base del genere superiori al 5%, in assenza di giustificazioni oggettive, l’impresa è tenuta a intervenire per correggerle, dopo una valutazione congiunta con i rappresentanti sindacali. A tale operazione di autoverifica aziendale interna – di per sé già significativa – potrebbero seguire sanzioni per violazione della norma, se le azioni di correzione non fossero attuate in un arco di tempo che il testo legislativo identifica come “ragionevole”. La direttiva agisce inoltre sui cosiddetti ostacoli di procedura – tutti quegli impedimenti alla piena garanzia dei diritti che i lavoratori possono incontrare all’interno dei propri sistemi nazionali di tutela giurisdizionale  – invertendo, ad esempio, l’onere della prova in capo al datore di lavoro: nel caso in cui il lavoratore/la lavoratrice lamenti la parità retributiva e qualora il datore di lavoro non abbia adempiuto agli obblighi di trasparenza imposti dalla direttiva, spetta all’impresa dover dimostrare che la differenza salariale posta in essere sia oggettivamente giustificata. Il rispetto della misura è quindi in qualche modo indotto anche dalla possibilità, per le aziende, di incorrere in giudizi di risarcimento del danno per mancati adempimenti. Alle vittime di discriminazione, infatti, è espressamente riconosciuto un tale diritto al risarcimento (compreso il recupero integrale delle retribuzioni arretrate e dei relativi bonus o pagamenti in natura) da esercitarsi entro i successivi tre anni dall’avvenuta violazione della parità retributiva, termine di prescrizione comune fissato dall’UE per armonizzare le discipline statali in materia (anche questa è una rilevante novità prevista dalla direttiva).

Nonostante gli interventi in materia siano considerevoli, la direttiva presenta alcune debolezze. Gli Stati membri hanno tre anni di tempo per recepire la normativa all’interno dei rispettivi quadri legislativi nazionali (entro il 7 giugno 2026); un intervallo di per sé già rilevante cui, in ogni caso, occorre aggiungere, almeno per le imprese di grandi dimensioni, un ulteriore anno posto che l’obbligo di fornire tutte le informazioni rilevanti è per esse fissato entro il 7 giugno 2027 (e per quelle più piccole entro il 7 giugno 2031). A seconda delle dimensioni dell’impresa, gli obblighi di comunicazione sul divario di genere hanno scadenze differenti: per le aziende con più di 250 dipendenti, l’appuntamento è annuale; per le realtà più piccole (fra i 100 e i 149 dipendenti), triennale; per le imprese con meno di 100, invece, non è previsto alcun obbligo. Inoltre, i criteri neutri e oggettivi chiamati in causa per la giustificazione della differenza salariale potrebbero pur sempre celare al loro interno ragioni discriminatorie, vanificando di fatto l’obiettivo della norma.

Come per altri principi, anche nel caso della parità retributiva tra uomo e donna, le prime previsioni normative a esprimersi in materia sono stati di fatto i trattati fondativi delle Comunità europee. L’affermazione di tali diritti non ne garantisce però la corretta applicazione all’interno di tutto il territorio dell’Unione, rendendo quindi necessari ulteriori interventi attraverso strumenti legislativi secondari, come le direttive, che specificano ambiti di applicazione, contenuti e procedure, anche la giurisprudenza nel frattempo sviluppata dalla Corte di giustizia e tutelando così la certezza del diritto.

 

***Eng version

After its approval by the European Parliament on 30 March, adoption on 10 May and publication in the EU Official Journal the following week, Directive 2023/970 entered into force. As the incipit of the document states, the aim of this regulation is to strengthen the application of the principle of equal pay for men and women in the Member States, for the same work or work considered to be of equal value. The strategy identified by the directive to limit gender pay discrimination is the so-called pay transparency: employers are in fact obliged to provide information on pay levels at all stages of the employment relationship, starting with the initial interview stage, and to intervene if gender pay gaps of more than 5% are recorded. The directive requires Member States to provide for proportionate and effective penalties for companies that do not comply with these guidelines, and explicitly introduces a right to damages for victims of discrimination. 

Analysing the text of the legislation carefully, there are several relevant aspects that should be highlighted. Considering the scope of the directive, the obligations are addressed to employers, without any distinction between public and private. The group of workers covered by the measure is even broader: recital 18 also refers to workers with fixed-term, part-time or temporary agency employment relationships. The EU legislator does not exclude the fact that further categories of workers – I am thinking, for instance, of workers employed by digital platforms or those on vouchers – may be considered as recipients of such content, provided that the criteria characterising an employment relationship according to the case law of the European Court of Justice are met. Through this “open clause”, the scope of the directive is considerably widened, allowing hitherto excluded subjects to participate in these innovations.

On the other hand, examining the content of the directive – especially the various recitals – it seems clear that the provision in question seeks to intervene on the limits of the previous regulation on the subject. By introducing an obligation of pay transparency, the regulation attempts to remove the opacity still present in wage payment systems, thus bringing to light any gender-based wage discrimination. Different wages between male and female workers can only be justified by reference to neutral and objective criteria, such as skills, commitment, responsibility and working conditions. As mentioned above, if gender-based pay differences of more than 5% occur, in the absence of objective justification, the company is obliged to take action to correct them, after a joint assessment with trade union representatives. This internal company self-audit – already significant in itself – could be followed by penalties for violation of the regulation, if the corrective actions are not implemented within a time frame that the legislative text identifies as “reasonable”. The directive also acts on the so-called procedural hurdles – all those impediments to the full guarantee of rights that workers may encounter within their own national systems of judicial protection – for example, by reversing the burden of proof on the employer: in the event that the employee complains about equal pay and if the employer has not fulfilled the transparency obligations imposed by the directive, it is up to the company to prove that the difference in pay is objectively justified. Compliance with the measure is therefore also to some extent induced by the possibility of companies being sued for damages for any non-compliance. In fact, victims of discrimination are expressly granted such a right to compensation (including the full recovery of back pay and related bonuses or payments in kind) to be exercised within the next three years after the breach of equal pay, a common limitation period set by the EU to harmonise state regulations on the matter (this is also a significant innovation of the directive).

Despite the fact that the directive is considerable, it does have some weaknesses. The Member States have three years to transpose the legislation into their national legislative frameworks (by 7 June 2026); an interval that is already significant in itself, to which, in any case, an additional year must be added, at least for large companies, since the obligation to provide all relevant information is set for them by 7 June 2027 (and for smaller companies by 7 June 2031). Depending on the size of the company, reporting obligations on the gender gap have different deadlines: for companies with more than 250 employees, the appointment is annual; for smaller companies (between 100 and 149 employees), three years; for companies with less than 100 employees, on the other hand, there is no obligation. Moreover, the neutral and objective criteria called into question for the justification of the wage difference could still conceal discriminatory reasons within them, effectively defeating the objective of the regulation.

As with other principles, in the case of equal pay for men and women, the first legal provisions to express themselves on the subject were in fact the founding treaties of the European Communities. The affirmation of these rights, however, does not guarantee their correct application within the entire territory of the Union, thus necessitating further action through secondary legislative instruments, such as directives, which specify areas of application, content and procedures, also the case law developed in the meantime by the Court of Justice and thus protecting legal certainty.

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