Umane e non solo, valorizzare le risorse è decisivo nel pharma

Nell’ultimo anno le attività lavorative si sono trasformate tanto dal punto di vista individuale – tra smart working ed esigenze di flessibilità – quanto nella visione più ampia di un’intera grande azienda. E il comparto farmaceutico, che sta vivendo mesi di grande fermento e di sovraesposizione mediatica, è un settore in cui il valore del lavoro merita di essere enfatizzato. Per Linc ne abbiamo parlato con il direttore risorse umane Italia di Merck, azienda globale operante in ambito scientifico e tecnologico nelle aree healthcare, life science ed electronics.

Francesco Luchi, come si è modificata dal suo punto di vista la quotidianità lavorativa, e quanto pensa che i cambiamenti siano qui per restare?

Per molti mesi, e ancora adesso, una buona percentuale delle persone che lavorano con noi lo fa da casa, con un impatto sia dal punto di vista organizzativo sia in termini di strumentazioni e modalità operative. Nella maggior parte dei casi questo ha accelerato processi di trasformazione che già erano in essere, dando un impulso notevole rispetto alla programmazione che era stata fatta: basta pensare alla rapidissima diffusione di strumenti di firma digitale per la documentazione aziendale e i contratti. La nuova normalità non sarà come il pre-pandemia, perché anche gli ambienti di lavoro saranno ripensati per dedicare più spazio alla progettualità in team e alla co-creazione, stimolando l’interazione e la collaborazione tra colleghi. Siamo impegnati anche a misurare gli effetti prodotti dai cambiamenti che stiamo affrontando, per esempio con sondaggi per vedere il livello di motivazione e di ingaggio alle iniziative, sia per aggiustare sempre meglio il tiro sia perché vogliamo prestare grande attenzione ai segnali che arrivano dalle persone.

A proposito di segnali e di feeedback, quali sono i bisogni che si vedono emergere con più forza tra i lavoratori?

Se già prima della pandemia era un’esigenza sentita, ora lo è ancora di più l’equilibrio dei momenti lavorativi con l’organizzazione familiare, il cosiddetto work-life balance. Chi lavora in modalità smart ha l’opportunità di gestire la vita domestica in maniera più flessibile, ma al risparmio dei tempi di spostamento fa da rovescio della medaglia il rischio di essere sempre connessi. È per questo che abbiamo siglato un accordo con le parti sociali e i sindacati per ribadire alcuni principi di base, come il diritto alla disconnessione e la necessità da parte dell’azienda di mettere a disposizione strumenti idonei perché si possa lavorare adeguatamente anche da remoto. In senso più generale, è mutata la relazione tra azienda e lavoratore: non si guarda alla quantità ma alla qualità del lavoro, in un rapporto sempre più basato sulla fiducia. Insomma, non si valuta il dipendente sulla base delle ore lavorate, ma soprattutto sulla qualità dei risultati che porta. È un cambio di approccio importante, epocale per il mondo dell’industria e soprattutto per certe categorie professionali. Tra le altre cose, ciò comporta un nuovo approccio da parte dei manager e di chi coordina le persone: molto è gestito in maniera digitale, soprattutto se il team non si trova in un unico paese ma è sparso in tutto il mondo.

C’è qualche altra nuova esigenza?

Altrettanto importante è l’aspetto del benessere psicofisico. Abbiamo aperto un laboratorio che non guarda solo all’attività lavorativa ma si cura anche dell’aspetto psicologico, fisico e alimentare: ambiti che allargano ancora di più il rapporto tra azienda e lavoratore. Nel nostro caso specifico, creiamo momenti di aggregazione, anche mediati da piattaforme digitali, e abbiamo un social network aziendale dove le persone possono incontrarsi. Quando si tornerà ad abitare fisicamente gli spazi, questi dovranno essere ripensati per essere accoglienti e stimolare l’attenzione – anche umana – tra i colleghi.

Al di là delle competenze specialistiche, quali sono le qualità soft che ritiene più decisive in un contesto particolare come quello odierno?

Due termini abusati, ma fondamentali, sono resilienza e flessibilità. Occorre superare la fase di chiusura e negazione di fronte alla pandemia, ma cogliere i rapidissimi cambiamenti in corso come un’opportunità, pronti a gestire le novità in maniera veloce e propositiva. Un’altra competenza fondamentale, in proposito, è riuscire ad apprendere rapidamente, e chi ha questa capacità ha un vantaggio competitivo rispetto ad altri. Molti degli elementi e delle competenze soft possono essere allenati: per farlo ci sono diverse strade, ma fondamentale e trasversale a tutto è l’essere curiosi.

In che modo la curiosità si declina in un ambito come la farmaceutica?

In un’azienda scientifica e tecnologica come la nostra il tema della curiosità e dello sperimentare è fondamentale. Chi non è curioso non lavora in questi campi, e chi lo è molto possiede un fattore vincente. Allenarsi alla curiosità significa essere in grado di generare nuove idee, essere aggiornati sul proprio campo d’azione (e non solo) ed espandere il proprio know how. Oggi siamo sempre più interconnessi, non solo all’interno del gruppo di lavoro o del contesto locale, ma anche in ottica multinazionale, con opportunità di condividere esperienze, competenze e modi diversi di vedere le questioni nei vari contesti, in paesi e con culture differenti. La valorizzazione delle diversità è fondamentale, e non è solo di genere: sempre di più le aziende vincenti sono quelle che valorizzano ogni tipo di diversità, facendone un fattore critico di successo proprio come accade per la sostenibilità. Il tutto in un’ottica di attenzione all’ambiente, alle risorse e alle persone. Sempre di più la fiducia degli stakeholder e la stessa quotazione in borsa di un’azienda è influenzata da quanto e come si faccia un uso attento, rispettoso e sostenibile delle risorse umane, energetiche e materiali: credo sia questa la più grande innovazione che cambierà lo scenario futuro.

Che consigli darebbe a un giovane che volesse lavorare nel mondo farma?

Anche se ora è difficile spostarsi fisicamente, tutto è molto più veloce e si possono vivere esperienze in modo diverso. Il settore farmaceutico è privilegiato rispetto ad altri contesti, perché siamo uno dei comparti che non stanno subendo grosse difficoltà lavorative, nonostante servano comunque grossi sforzi individuali per dare continuità alle attività dell’azienda. Credo che cogliere i lati positivi pure in un uno scenario drammatico come la pandemia sia l’elemento più importante: se anche non si può viaggiare, con i social ci si può costruire una rete di conoscenze, di contatti e di amicizie di cui fare tesoro. Dato che si lavora sempre più in aziende con dimensione multinazionale, l’elemento della lingua (tendenzialmente l’inglese) è imprescindibile, e fare esperienze diverse dal contesto in cui ci si trova dà la possibilità di allenare la curiosità al di fuori della propria area di conforto, creando contaminazioni positive. Questo prepara e allena a quei cambiamenti che sono inevitabili, rendendo più pronti e flessibili anche in condizioni estreme. Come responsabile delle risorse umane, sono molto interessato a giovani che abbiano fatto esperienze varie in contesti diversi, perché ciò porta a essere flessibili e pronti a qualsiasi sfida.

Ritiene che sia cambiata l’attrattività del comparto farmaceutico, dal punto di vista occupazionale, rispetto all’inizio del 2020?

Le aziende farmaceutiche nell’opinione pubblica vengono sempre viste in maniera un po’ contrastante. Questo è anche comprensibile, dato che operiamo in un ambito, quello della salute, che costituisce un aspetto fondamentale della vita di tutti. Spesso però non viene abbastanza evidenziato il contributo dell’industria farmaceutica alla ricerca scientifica: i tempi, rapidissimi, in cui sono stati sviluppati e resi disponibili i primi vaccini contro Sars-Cov-2 dimostrano come le competenze e l’innovazione che abbiamo saputo generare negli anni costituiscano un valore che può fare una differenza fondamentale per tutti. La stretta collaborazione tra ricerca privata e istituzioni a cui siamo stati chiamati per rispondere alle sfide di questa pandemia può diventare un paradigma: oggi l’obiettivo è sempre di più creare un circolo virtuoso (e ovviamente, ben regolamentato) in cui la ricerca privata e quella pubblica interagiscano valorizzandosi a vicenda. La co-partecipazione di ricerche a capitale misto non è una follia, ma la migliore soluzione possibile. Valorizzare la ricerca farmaceutica vuol dire porre le basi per un futuro migliore. È grazie alla ricerca che l’aspettativa e la qualità di vita sono aumentate: oggi le persone vivono di più e meglio, e tante patologie che un tempo venivano vissute come una condanna sono curabili.

E dal punto di vista individuale?

Il farmaceutico è un comparto che può essere attrattivo soprattutto per chi vuole fare una carriera in una realtà orientata al progresso scientifico e tecnologico, non solo nell’ambito più specifico del farmaco: pensiamo per esempio all’area delle tecnologie delle scienze della vita, che si occupa dello sviluppo di strumentazioni a supporto di ricerca e sviluppo in ambito farmaceutico. Il nostro è un comparto in cui si parla quotidianamente di innovazione, di ricerca, di sviluppo futuro e di creazione di benessere per le persone. Le opportunità ci sono e prevedono che si entri in contesti multinazionali: serve essere pronti a fare esperienze anche al di fuori dall’ambito nazionale, e anche per questo siamo un comparto che genera tanto interesse e attrae molti giovani.

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