C’è un nuovo qui e ora

Nel film Don’t Worry Darling uscito qualche mese fa nelle sale italiane, e che ha fatto molto parlare di sé viene raccontata quella che all’apparenza sembra essere una storia felice e perfetta: la vita della coppia formata da Alice (Florence Pugh) e Jack (Harry Styles). La città che ospita i due protagonisti è inventata, surreale e si chiama “Victory”, come a significare che il mondo raccontato nel film rappresenti per ogni personaggio una vera e propria vittoria. Peccato che con lo sciogliersi della trama, emergano dei dettagli sempre più inquietanti e distopici che fanno capire allo spettatore come non si tratti affatto della storia felice di una moglie perfetta con un marito perfetto in un luogo da sogno. È vero, i due sembrano sereni, ma la loro felicità è la più mera delle illusioni. La domanda sorge dunque spontanea: cos’è davvero la felicità? Secondo le parole del filosofo Kieran Setiya sul The Guardian, «si tratta di uno stato d’animo o un sentimento, uno stato d’essere soggettivo: potresti essere felice mentre vivi una bugia». Tutti noi vogliamo essere felici ma spesso, proprio come Alice in Don’t Worry Darling, ci illudiamo di esserlo, circondati da un mondo di apparenze.

«Siete felici?» oppure «Questo lavoro ti rende felice?» o anche «Cosa ti renderebbe felice?»: sono tutte domande che, scommetto, ciascuno di noi si è sentito rivolgere almeno una volta nella propria vita. Sempre secondo il filosofo Kieran Setiya non bisogna commettere il grave sbaglio di far sì che il nostro obiettivo finale sia sempre e solo la serenità e tutto il resto una cornice o un mezzo per raggiungerla. Infatti, in questo modo, niente ci renderà davvero appagati e soprattutto, questo modus operandi diventerà una vera e propria gabbia che creerà delle aspettative irrealistiche. Forse, lo scopo, sottolinea sempre il filosofo, dovrebbe essere trovare nel mondo un significato sufficiente per essere contenti perché «vivere bene significa vivere nel mondo reale, interagire con le persone a cui teniamo e spenderci in attività che valgono il nostro tempo, anche quando ci causano dolore». Anche Susan David, psicologa presso la Harvard Medical School, parla di ossessione della felicità, sostenendo che secondo alcune ricerche, le persone che hanno la propria felicità come unico obiettivo tendono, mediamente, a essere meno felici delle altre.  

Questo ovviamente non significa affatto che dobbiamo essere infelici: su The Tribune, il giornalista Farrukh K. Pitafi per spiegare meglio la sua idea di serenità cita lo storico Yuval Harari e la sua opera Homo Deus. Harari scrive: «Il soffitto di vetro della felicità è tenuto in posizione da due robusti pilastri, uno psicologico, l’altro biologico. A livello psicologico, la felicità dipende dalle aspettative piuttosto che da condizioni oggettive. Non ci accontentiamo di condurre un’esistenza pacifica e prospera. Piuttosto, diventiamo soddisfatti quando la realtà corrisponde alle nostre aspettative». Di fronte a questa affermazione però, nasce un problema. Infatti la cattiva notizia è che man mano che le condizioni migliorano, le aspettative si gonfiano sempre di più: questo discorso potrebbe essere, per esempio, strettamente connesso alla realtà lavorativa del singolo individuo, rendendolo estremamente insoddisfatto. Perciò, prosegue Harari: «Questo fa sì che i miglioramenti delle condizioni, come quelle che l’umanità ha sperimentato negli ultimi decenni, si traducono in maggiori aspettative piuttosto che in definitivo appagamento. Se non facciamo qualcosa al riguardo, anche i nostri risultati futuri potrebbero lasciarci insoddisfatti come sempre». 

Ovviamente, queste affermazioni non sono spinte all’infelicità, ricorda sempre Kieran Setiya sul The Guardian: «Non significa che dovremmo sforzarci ad essere infelici o a diventare indifferenti alla felicità. Ma bisogna capire che c’è di più nella vita oltre a focalizzarsi su come ci si sente. È importante concentrarci sul mondo reale e sulla concretezza, e questo non significa che stiamo prendendo una strada obliqua e lontana dalla nostra stessa felicità, bensì che rispondiamo nel modo giusto, come dovremmo, a ciò che conta per davvero». Insomma, concentrarsi sul mondo concreto, diventa un modo per goderci profondamente ciò che abbiamo. 

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