In ritardo

Sto per consegnare questo pezzo, in ritardo. Non è una novità. “In ritardo” sono le due parole che, senza essere pronunciate, accompagnano il mio lavoro da otto mesi, ovvero da quando è nata mia figlia. Avevo 43 anni quando sono rimasta incinta, 44 quando è nata, e avevo una vita che qualcuno definirebbe strutturata: faccio non solo il lavoro che mi piace, ma proprio quello che volevo da bambina. Sono una scrittrice, quindi già la scelta del verbo mi manda in crisi: lo sono o lo faccio? Certo nessuno di noi si riassume e si definisce solo attraverso il proprio lavoro, però per certi lavori o per certe persone la linea è più labile, il confine fumoso. Sono una scrittrice (ovvero: mi sarei sentita tale anche se non l’avessi potuto fare per mestiere) e faccio la scrittrice (ovvero: ciò con cui mi guadagno da vivere sono le parole). Sono fortunata, è vero, ma ci ho messo tutta la prima parte della mia vita ad arrivare fino a qui, ho fatto tanti altri lavori, ho scritto di notte, ho scritto nei ritagli di tempo, ho scritto senza guadagnare un soldo mentre mi pagavo l’affitto con altro, magari scrivendo rubriche anonime, compiendo cioè il più folle degli atti, negare e negarsi la propria firma (ma forse è così che ho imparato a essere libera, a non vergognarmi di nulla, a non avere paura di nessuna parola). Quindi, più che di fortuna parlerei di determinazione, o forse di unica possibilità di sopravvivenza: dentro di me una voce diceva che se non avessi provato a far coincidere chi ero e ciò che facevo sarei morta. Anzi, a volte quella voce urlava proprio, obbedirle è stato dovuto. Non ho mai pensato al lavoro come alternativa ai figli, non l’ho mai pensato come un sostituto né come un palliativo, e non ho mai  pensato che avere figli mi avrebbe tolto qualcosa. Se non ho avuto figli prima è dipeso da altre vicende, ma adesso so che tutto è andato a posto in un modo che sento giusto per me, perché non sono affatto sicura che, nel rigore dei miei 30 anni, avrei vissuto con la stessa allegria e segreta ironia quell’inevitabile rallentamento da cui adesso posso lasciarmi sopraffare. Naturalmente non è un discorso generazionale in assoluto, non so se sia meglio fare figli a 20, 30, 40 anni, so che per ogni persona esistono strade diverse, sono figlia di una madre ventenne e a volte mi fa sorridere pensare di essermi riprodotta al doppio dei suoi anni, come mi fanno sorridere certe similitudini che si sovrappongono tra la mia esperienza e la sua.

Eppure, mia madre – con cui ho baccagliato tutta la vita – si è rivelata un involontario modello. Prima di questi mesi non mi ero accorta di quanto l’avessi ammirata, presa com’ero a criticarla su tutto; o forse, più che di ammirazione, si trattava di un’emulazione che avevo assorbito senza che però mi fosse concesso di metterla in pratica: non avendo figli, non sapevo cosa significasse conciliare maternità e lavoro. A dire il vero, quando partecipavo ai dibattiti sul tema, interessata soprattutto al punto di vista e alla storia delle altre, c’era sempre qualcosa che mi sfuggiva, al di là delle battaglie sacrosante su nidi e orari, mi sembrava si parlasse troppo poco di determinazione e felicità. Mia madre lavorava molto, o meglio studiava molto (subito dopo la mia nascita si è laureata e ha cominciato a fare ricerca), e sono cresciuta con l’idea che fosse normale rinunciare a qualcosa, perfino a un po’ di denaro in più, per seguire il lavoro dei propri sogni, o almeno provarci. Per provare a far coincidere chi siamo e cosa facciamo. Non so se ci si può riuscire, non sempre di sicuro, e anche quando la cosa sembra fatta, il sogno afferrato, in realtà ti sta scivolando via da tutte le parti. Non sei comunque al sicuro. Però mi ricordo di quando mia madre rinunciò all’insegnamento per una borsa di dottorato, e all’improvviso io e lei dovevamo vivere con metà dello stipendio cui eravamo abituate. Me lo spiegò con un sorriso tale che, di quel discorso, io ricordo soprattutto la calma.

Non so se mia madre abbia mai consegnato una sua tesi in ritardo, o se abbia mentito dicendo di una pagina: è pronta, è pronta, mentre invece stava allattando o calmando un piantarello. So che mentre lo facevo questa pagina l’avevo già scritta, come ogni giorno da otto mesi a questa parte, e so che è cominciata l’epoca più difficile: continuare a conciliare chi sono e cosa faccio, mentre mi occupo con tutta me stessa di un altro straripante essere umano.

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