Un umanesimo digitale è possibile?

Trasformazione digitale, robotica, intelligenza artificiale, blockchain, machine learning, realtà aumentata, IoT: sono solo alcune delle parole chiave del brave new world che ci attende. Parole di un mondo nuovo, costantemente evocate, però, dai media e dal dibattito pubblico, come una sorta di apocalisse. Cambiamenti in cui la nostra società è costantemente immersa e da cui è stata e continua ad essere, letteralmente, persino travolta. A ondate ravvicinate le une alle altre che costituiscono altrettante accelerazioni di un incessante processo di trasformazione, che si fa fatica, forse, a comprendere appieno, perché nel momento stesso in cui ci si ingegna ad afferrare il senso di una trasformazione in atto, ecco che una nuova ondata di trasformazioni ha, in pochi mesi, repentinamente mutato la realtà in cui viviamo e con essa i nostri stessi comportamenti, le nostre possibilità, la nostra società, il nostro modo di intendere e vivere il mondo del lavoro. E per questo spaventa, come ogni cosa che non si riesce a comprendere appieno. Ecco, dunque, che la trasformazione digitale viene sovente intesa, e paventata, come un pericolo.

Tra venti o trent’anni cosa sarà dell’uomo nella società digitale che le trasformazioni in atto permettono di intravvedere? Che ruolo avrà il lavoro umano, anche intellettuale, nel futuro prossimo in cui – presumiamo – la robotica soppianterà qualsiasi necessità di intervento umano nei processi non solo produttivi, ma anche, persino, decisionali? È possibile, in altre parole, un umanesimo digitale? O si tratta di una contraddizione in termini? Da Matera, Capitale Europea della Cultura per il 2019 e, in un certo senso, città-simbolo della resilienza, il XLII Congresso dell’Associazione Nazionale Direttori Amministrativi e Finanziari, nonché 49simo congresso della International Association of Financial Executives Institutes, ha lanciato, nella giornata del 25 ottobre scorso, una sfida sul tema della cultura digitale, con una tavola rotonda dal titolo “Cultura digitale: come cambiano i nostri comportamenti, le nostre possibilità e il lavoro mentre la tecnologia evolve a ritmo accelerato?”. 

La trasformazione digitale riveste un ruolo sempre più importante per le imprese italiane. Oltre il 90% delle piccole e medie imprese, come rilevato da recenti indagini, dimostra di credere profondamente nei processi di trasformazione digitale come leva strategica per perseguire obiettivi di competitività a livello internazionale. «Le aziende più propense al cambiamento, in Italia, in cui osserviamo interessanti processi di trasformazione – ha osservato Fabio Spoletini, senior VP Southern Europe, Russia & CIS – country manager Oracle Italy S.p.A. – Sono le medie aziende che oggi competono all’estero, sui mercati internazionali, imprese caratterizzate da un management visionario che si proietta sulle sfide di competitività a livello internazionale». A questo grande interesse fa spesso, però, da contraltare una scarsa conoscenza delle nuove tecnologie e dei processi di trasformazione in atto. «Abbiamo il dovere di documentarci – osserva Luisa Arienti, managing director SAP Italia S.p.A. – La sensibilità è molto alta: per la maggior parte degli imprenditori le tecnologie sono fondamentali al fine di garantire la sopravvivenza dell’impresa e capire e anticipare le esigenze del mercato. Ma non c’è ancora molta conoscenza su cosa possa significare la tecnologia applicata all’azienda e come possa essere utilizzata per il bene dell’impresa. Quanti di noi hanno effettivamente in mano gli elementi di conoscenza per capire il più possibile le nuove tecnologie per poterle poi adottare in azienda e quindi cambiare i modelli organizzativi?». In questo processo di formazione sono i giovani ad avere un ruolo cruciale: «Ascoltiamo soprattutto loro – continua Luisa Arienti – Parliamo continuamente del loro futuro, di quali saranno i loro lavori; ma quanti di noi spendono sufficiente tempo ad ascoltarli? I giovani sanno cosa sono le tecnologie, lo sanno sul serio perché le usano continuamente, perché sono documentati. Sanno perfettamente e vivono sulla propria pelle che quel che oggi facciamo e conosciamo tra sei mesi non sarà più così. È un fenomeno completamente diverso da quello vissuto dalle generazioni precedenti. Ascoltiamo dalla loro viva voce come disegnerebbero il loro futuro. La nostra esperienza ha un valore, certamente, ma va messa al loro servizio».

Ne è testimone Ignazio Rocco di Torrepadula, fondatore di Credimi, società leader in Europa nel finanziamento digitale: «Quando ho creato Credimi avevo chiaro in mente che tipo di azienda volessi fare, che tipo di problema risolvere, ma non avevo la minima idea di come farlo, perché implicava avere delle competenze di tecnologia, di gestione dei dati, di uso del marketing digitale che non avevo minimamente. Avevo quindi ben chiaro in mente che l’obiettivo era creare una squadra di persone di un’altra generazione, più o meno quella di mio figlio piuttosto che della mia. Da un lato è stato complicato per una persona che ha passato tutta la sua vita tra banche e consigli di amministrazione entrare in contatto con questi giovani, ma dall’altro lato affascinante perché ho scoperto che questi ragazzi, tra i venticinque e i trentacinque anni, hanno assolutamente tutte le competenze necessarie per prendere responsabilità, anche importanti. Per qualche motivo non gliele diamo, perché forse il Paese è invecchiato. Ma se ci riflettiamo e riguardiamo la storia, in fondo, anche la nostra Costituzione è stata scritta da persone che avevano circa trent’anni. Le cose si possono fare e vengono anche piuttosto bene».

L’intervento di Riccardo Barberis, amministratore delegato di ManpowerGroup Italia, durante il XLII Congresso di ANDAF

Sembra un paradosso, ma una recente indagine di ManpowerGroup Italia ha mostrato che l’87% dei datori di lavoro, il numero più elevato di sempre, ha intenzione di aumentare o mantenere invariato il proprio organico a seguito dell’automazione: piuttosto che ridurre le opportunità di lavoro, le organizzazioni stanno investendo nel digitale, trasferendo le mansioni operative ai robot e creando posti di lavoro. Del 41% delle aziende che procederanno ad automatizzare le mansioni operative nei prossimi due anni, il 24% creerà più posti di lavoro, 6 punti percentuali in più rispetto ad aziende che non intendono automatizzare: «Le nostre ricerche mostrano chiaramente che è vero che ci sarà una migrazione di mansioni verso l’automazione, ma non c’è dubbio che si creeranno nuove competenze necessarie e nuovi lavori, che oggi non sono prevedibili – dichiara Riccardo Barberis, amministratore delegato ManpowerGroup – Sono cambiamenti che abbiamo già vissuto, in fondo: dalla società agricola a quella industriale, e da questa alla società dei servizi. Crediamo, dunque, che nel breve periodo sarà necessario capire la variabile di come riuscire a gestire questo passaggio, ma in termini prospettici e di trend, non c’è dubbio che non dobbiamo avere paura di questa evoluzione. Dobbiamo saperla gestire, sarà una sfida». Il punto centrale saranno le competenze, dimostra ancora l’indagine di Manpower: l’84% delle organizzazioni prevede di potenziare le competenze della propria forza lavoro entro il 2020. E un ruolo centrale avranno le doti umane e le cosiddette soft skill: i datori di lavoro attribuiscono sempre più valore alle doti umane in virtù della crescita dell’automazione e del fatto che le macchine risultano migliori nelle mansioni di routine. Mentre il 38% delle organizzazioni ritiene sia difficile formare il personale sulle competenze tecniche richieste, il 43% sostiene sia ancora più difficile insegnare le soft skill necessarie, quali le capacità comunicative e il ragionamento analitico. I candidati che dimostrano di possedere maggiori capacità cognitive, creatività e la capacità di elaborare informazioni complesse, nonché adattabilità e affidabilità, possono aspettarsi un maggiore successo nel corso della propria carriera. Entro il 2030, la richiesta di doti umane, ossia di soft skill sociali ed emotive, aumenterà del 26% in tutti i settori negli Stati Uniti e del 22% in Europa. «È l’inizio di una rivoluzione umana – continua Barberis – non solo una rivoluzione tecnologica. Il delta non lo darà l’intelligenza artificiale, ma la darà sempre l’uomo che la governa. Le macchine possono batterci agli scacchi, dove le regole sono certe. Ma noi siamo in un mercato che è velocissimo e in cui la capacità di lettura di cosa succede nel contesto esterno e l’elaborazione di quei dati può farla solo l’umano».

Il tema della trasformazione digitale si lega necessariamente, dunque, a quello della sostenibilità: «Il cambiamento è un elemento fisiologico – conclude Carmine Scoglio, vice presidente ANDAF e responsabile Servizi Amministrativi, Poste Italiane – La tecnologia abilita, ma non possiamo dimenticarci del fattore umano. I contadini rispettavano la natura, oggi la tecnologia deve rispettare il fattore umano, che a sua volta deve governare la tecnologia. Da qui nasce la necessità di una formazione continua. La tecnologia è sostenibile nel momento in cui non prescinde dall’uomo, dal momento in cui non viene abbandonata a se stessa. Dobbiamo saper guardare al futuro con la consapevolezza che il futuro non ci appartiene: lo abbiamo preso in prestito dai nostri figli e dovremo ridarglielo, magari un po’ migliore di come lo abbiamo ricevuto».

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