La Cina punta sul soft power dell’istruzione

Le aziende comprendono sempre più la necessità di adottare soluzioni comuni in un mondo frammentato. Lo sanno bene le imprese del Vecchio Continente, il cui recruiting hi-tech si scontra con il vuoto di competenze digitali. “Fatto cento, solo il 33% delle aziende che naviga consapevole attraverso la digitalizzazione ha successo – spiega Vincenzo Tortorici, partner e managing director di BCG – il restante 67% che non si trasforma chiude o viene venduto”.

Insomma armarsi di competenze, leggi risorse preparate da raccogliere tra i giovani laureati, meglio se specializzati in STEM, è un dovere. Entro la fine di quest’anno in Europa ci saranno quasi 5 milioni di posti di lavoro ma il 50% di essi rischia di perdersi proprio a causa della mancanza di competenze. Un vuoto che colmeranno i giovani cinesi? Sembra proprio di sì dato che nel 2016 i laureati in materie scientifiche in Cina erano 4,7 milioni.

I ragazzi che si specializzano in materie scientifiche in Cina crescono e puntano a questi posti di lavoro, ben remunerati, anche a costo di trasferirsi in Europa. L’Università di Oxford ha sfornato dei dati che parlano da soli: nel 2017 il numero dei laureati in Cina ha superato gli otto milioni, dieci volte il livello del 1997 e più del doppio dei laureati nelle università americane. E pensare che solo vent’anni fa, in Cina, studiare era un privilegio per l’élite, non certo per tutti. Tutto cambiò nel 1999, quando il governo ha lanciato un programma per diffondere lo studio universitario.

Oggi le cose sono ancora diverse ed è diventata esplosiva la crescita dei laureati esperti in quello che al momento serve alle aziende a livello globale: ingegneri sistemisti e tecnici, capaci elaboratori di dati, sviluppatori di rete, creatori di videogiochi, programmatori e progettisti. Gli stessi studenti che poi puntano alle università tedesche e britanniche per specializzarsi: in Gran Bretagna sfiorano le 92.000 unità, stando ai dati dell’Uk Council for International Students Affairs e nella prestigiosa Università di Oxford sono ormai la seconda forza straniera.

Si laureano in Cina, parlano inglese e cinese, e poi vanno in Inghilterra, Germania, Francia per il Master, se non per l’intero corso universitario. E spesso restano, dato che le aziende sfruttano non solo la loro competenza tecnica, ma anche linguistica. Quale azienda globale, al giorno d’oggi, non assumerebbe un laureato STEM che parla bene l’inglese e il cinese?

La Cina, badate bene, non sforna questi studenti a beneficio dell’Europa. Ma grazie all’istruzione e allo scambio culturale, che ad oggi rimane il più importante nelle relazioni tra i Paesi, esercita il suo soft power sempre ben inserito nei suoi programmi pilastro. Il primo, “Made in China 2025” punta a trasformare la Cina in una piattaforma dell’IT e della robotica. Come dire, la leadership cinese ha identificato nella scienza e nella tecnologia un forte supporto alla crescita economica e di conseguenza ha intrapreso i passi necessari a svilupparne l’infrastruttura, a partire dall’educazione.

Se poi questi studenti porteranno benefici agli utili di aziende non cinesi, pazienza. Poi torneranno in Cina condividendo quanto appreso. L’investimento in Ricerca e Sviluppo eccede da tanti anni quello di Usa e Europa, così come spiega il think tank Bruegel, e un quarto dei laureati a livello globale in materie scientifiche e ingegneria arriva dalla Cina.

Questi numeri non dovrebbero spaventare. Come sottolinea proprio Bruegel, basta pensare alla Silicon Valley americana per capire che importanti industrie hanno beneficiato dell’apporto degli stranieri: la posizione statunitense è sempre stata quella di aprirsi alle menti più brillanti e ai migliori talenti al di là della cittadinanza, anche quelli cinesi, che spesso decidono di rimanere negli USA. Anche l’Europa delle aziende e della ricerca, come quella delle università, dovrebbe aprirsi a questa fase di globalizzazione scientifica – spiega Bruegel – attraendo senza pregiudizi eccellenze che porterebbero nuova conoscenza.

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