Teorizzata per la prima volta nel 1978 dalle psicologhe statunitensi Pauline Clance e Suzanne Imes, la sindrome dell’impostore viene definita come l’incapacità di credere nelle proprie competenze, nonostante i comprovati risultati ottenuti e il riconoscimento delle proprie capacità da parte di altri. I soggetti che fanno esperienza della sindrome dell’impostore attribuiscono al caso o a particolari circostanze fortuite il raggiungimento dei propri obiettivi, non percependosi mai all’altezza dei compiti che vengono loro affidati. Da qui, l’uso del termine impostore, a sottolineare il senso di inadeguatezza costante provato da questi individui.
Studi successivi hanno indagato l’origine di questo fenomeno, dimostrando come la sindrome dell’impostore abbia un’origine sociale, veicolata dai modelli culturali di riferimento: questi ultimi determinano infatti cosa sia più opportuno ricercare in termini di percorso lavorativo, paradigma familiare e prospettive future. L’eventuale scarto fra tutto questo e quello che il singolo invece realizza produce frustrazione e manchevolezza, spingendo l’individuo a dubitare delle proprie competenze e del proprio valore.
Nonostante la sindrome dell’impostore si manifesti facilmente sul luogo di lavoro – l’impiego delle proprie abilità e l’utilizzo delle proprie risorse sono infatti quotidianamente richiesti in ambito professionale – il rapporto tra sensazioni di inadeguatezza e rendimento lavorativo è stato poco analizzato. Un recente articolo di Basima Tewfik – professoressa associata presso il Dipartimento di Studi sul Lavoro e le Organizzazioni della MIT Sloan School of Management – pubblicato dall’Academy of Management Journal tenta di colmare questa lacuna, correlando i pensieri degli impostori sul posto di lavoro con la loro efficacia nelle relazioni interpersonali. Secondo i risultati ottenuti, le persone che sperimentano la sindrome dell’impostore sviluppano una maggiore predisposizione verso il lavoro di squadra, orientando la loro pratica professionale alla collaborazione con i colleghi. Pare pertanto attivarsi una sorta di meccanismo di compensazione per la propria percepita incompetenza, che si traduce in un aumento delle capacità relazionali e comunicative, con un ritorno positivo per l’intero ambiente di lavoro. Ascolto, comprensione ed empatia sono aspetti che vengono abitualmente adoperati dagli individui che si identificano come impostori, concentrati nel legame con gli altri per sopperire alla percezione di impreparazione. Come sottolinea l’autrice stessa, gli esiti di questa ricerca non devono essere interpretati come un invito ad abbracciare i pensieri impostori; rappresentano piuttosto il tentativo di «eliminare lo stigma e dare una visione più equilibrata» della sindrome, in grado di apportare alcuni benefici ai lavoratori.
La sindrome dell’impostore e le sue conseguenze trovano spazio anche nei capitoli del libro Presence della psicologa sociale Amy Cuddy, la quale sostiene come un linguaggio del corpo adatto e la capacità di avere appunto presenza – una sicurezza, priva di arroganza, in sé stessi e nelle proprie competenze – possano influenzare positivamente i processi mentali. Assumere una postura corretta – aperta e ampia – e tentare al tempo stesso di entrare in sintonia con le circostanze esterne sarebbero quindi manifestazioni di risolutezza e decisione, in grado di contrastare le tendenze negative della mente. In situazioni individuali in cui il singolo è sottoposto ad alto stress psicologico – colloqui di assunzione, promozioni di carriera o attribuzioni di mansioni professionali altamente significative – i pensieri impostori tendono a prendere il sopravvento: l’utilizzo di alcuni degli stratagemmi indicati dalla Cuddy potrebbe essere un buon metodo per rompere tale circolo vizioso, non potendo sfruttare il potenziale interpersonale della sindrome.
Sentirsi degli impostori sul luogo di lavoro, nell’esercizio della propria professione, certamente non aiuta, ma le evidenze e i suggerimenti qui riportati forniscono strumenti efficaci nel superamento di tale ostacolo, per una vita lavorativa più equilibrata.