Patti tra generazioni per organizzazioni più solidali

La popolazione italiana invecchia, secondo un trend ormai definito, che a parere dei demografi non accenna a diminuire, ma anzi procede spedito. Al 2024, registriamo secondo l’ISTAT il minimo storico di fecondità, una speranza di vita che supera definitivamente i livelli pre-pandemici, una complessiva decrescita delle morti. Così si esprime l’ISTAT in un recentissimo report1. 

Già nel dicembre 2018, una multinazionale come il Gruppo VW, nel suo meeting internazionale annuale nel corso del Global Works Council (GWC), sollevava la questione dell’età crescente della classe lavoratrice, in Germania e nelle sedi europee, ponendo sul tappeto della discussione tra sindacato e manager – all’insegna della tedesca mitbestimmung – la necessità di interventi volti a modificare ruoli e mansioni, e più in generale la complessiva organizzazione del lavoro, sulla base del progressivo invecchiamento dei lavoratori2. È dunque questo uno snodo centrale: i nostri lavoratori invecchiano, tanto nel settore pubblico quanto in quello privato, tenendo in conto che nel primo la situazione diviene ancora più critica data la restrizione progressiva delle assunzioni, quando non i temporanei blocchi del turnover, che attanaglia molti settori – dalla sanità, alla scuola e alle università, non tralasciando la pubblica amministrazione – ormai da decenni. Infatti, sempre l’ISTAT segnala, al gennaio 2025, una lieve crescita della disoccupazione tra i giovani in età tra i 25-34 anni, pur in quadro complessivo lievemente decrescente3. 

A uno sguardo generale, il nostro Paese può apparire dunque come incline a una certa gerontocrazia: caratterizzato da un ingresso tardivo nel mondo del lavoro, da progressioni di carriera lente, da una classe dirigente nel complesso anziana – più anziana che in altri paesi europei. Al contempo però, una prospettiva sanamente rivendicativa richiama l’attenzione su un problema reale, ovvero la necessità di accrescere e di accelerare la presenza e i percorsi dei giovani nel mondo del lavoro, come ricorda il Piano 2025 del Consiglio Nazionale Giovani. Soprattutto le nuove tecnologie, l’uso spinto dell’informatica, dell’internet of things o 4.0, dell’AI non possono che favorire i cosiddetti nativi digitali, avvezzi all’uso di tali strumenti, inevitabilmente meglio delle più anziane generazioni, che hanno vissuto il transito alle tecnologie digitali (pagando in questo anche prezzi di adattamento più o meno faticoso).  

Lungi dai limiti di questo breve scritto proporre soluzioni per problemi di natura macro-sociale, demografici ed economici, ascrivibili alla sfera dell’azione politica. Piuttosto, da un punto di vista antropologico, si vuole riflettere su una più generale cultura del lavoro, che sembra invalere nel quadro sommariamente descritto e che pone in diretta concorrenza generazioni diverse di lavoratori: giovani che premono per entrare nel mondo del lavoro e, una volta entrati, che aspirano a far carriera, spesso in diretta competizione, o persino sudditanza, rispetto a generazioni di quadri e dirigenti che tardano ad uscire, inchiodati dal canto loro a regole pensionistiche stringenti, oppure spesso richiamati a rilevare – nelle valutazioni dei più giovani – la necessità di ulteriori step di maturazione. Certo, il sistema capitalistico contemporaneo trova nella competizione un asse portante della sua logica, e se tuttavia provassimo a prospettare una visione del lavoro diversa, che pensa alle generazioni di lavoratori in una più stretta cooperazione, piuttosto che in opposizione? Una cooperazione dove sul piatto dello scambio si confrontano da un lato nuove generazioni con competenze strutturate, maggiore agilità intellettuale, audacia nell’agire e fantasia, a fronte, dall’altro lato, della mole di esperienza, della capacità di problem solving accresciuta negli anni, di identità aziendali consolidate, insomma di capitali relazionali e culturali, propri delle più anziane generazioni, che portano ad una accresciuta prospettiva diacronica e previsionale? A rischio di apparire utopistici, preme qui ricordare che training on the job, mutual mentoring, coaching sono altrettanti approcci manageriali, di psicologia del lavoro e sociologia organizzativa, che molte aziende già sperimentano, presupponendo e/o esortando un interscambio più stretto tra “vecchi” e nuovi lavoratori. Quelli che possiamo definire patti lavorativi tra le generazioni, andrebbero dunque incentivati, anche con leggi ad hoc, prefigurando rapporti tra le classi d’età lavorativa basati non sulla diffidenza, sulla contrapposizione o sulla mutua esclusione, ma piuttosto su una fattiva collaborazione. Un quadro a cui l’antropologia aggiunge, con il suo consueto approccio metodologico bottom up, la necessità di operare perché si realizzi un reale cambiamento di prospettive, una diversa cultura organizzativa, cui si accompagni un’opportuna capacità di messa in atto di tali patti, anche favorita da programmi di formazione mirati alle persone di tutti i livelli: ovvero una cultura fiduciaria reciproca, all’insegna dello scambio, che si concretizzi nelle pratiche comportamentali dei lavoratori  e delle lavoratrici di ogni età – tanto da consolidarsi in vere e proprie prassi – e che non resti invece un insieme di ottimistiche asserzioni, cristallizzate nei soli principi e nelle dichiarazioni organizzative.  

Il presente articolo è tratto dall’ultima edizione di LINC uscita a giugno 2025. 

D’Aloisio FulviaBN

 

Fulvia D’Aloisio è Professoressa Ordinaria di Antropologia culturale – Antropologia dell’impresa e del lavoro presso l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli.

 

 

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