L’ufficio del futuro: diffuso, armonico, flessibile, plurale

Parla Daniele Di Fausto, CEO di eFM: «Il cambiamento è già in atto, cavalchiamo la transizione verso una nuova modalità di lavorare»

Cos’è l’ufficio, oggi? Una domanda chiave nello scenario odierno, ormai ampiamente post pandemico; uno scenario in cui nuovi equilibri e approcci al lavoro si sono inevitabilmente insediati nelle grandi aziende. Una fase ancora di transizione, questa, in cui è fondamentale porre l’accento su un grande tema: il superamento del dualismo casa-ufficio, ormai del tutto obsoleto. E mentre negli Stati Uniti molti grandi headquarter continuano ad avere la maggior parte delle loro stanze vuote e per questo viaggiano sull’orlo del default, altri giganti (soprattutto del mondo tech) richiamano i propri dipendenti in sede. Tutto questo si traduce in un forte malumore per chi resta; gli altri, semplicemente, decidono di andarsene (la Great Resignation è ormai fenomeno arcinoto). E in Italia? Tra accorpamenti più o meno forzati e tentativi di efficientamento degli spazi, sia le grandi corporate sia le aziende proprietarie dei palazzi ad uso ufficio provano a trovare la quadra. A questo punto, oltre a provare a capire cosa è diventato l’ufficio oggi, è inevitabile farsi anche un’altra domanda: cosa sarà l’ufficio domani? 

ufficio del futuro

Ne abbiamo parlato con Daniele Di Fausto, CEO di eFM, azienda-piattaforma nata nel 2000 e a oggi presente in quattro continenti, che ha l’obiettivo di rinnovare radicalmente il mercato del real estate.

Il mercato del lavoro europeo negli ultimi mesi vede una sempre maggiore carenza di candidati, di risorse skillate in generale, a fronte però di dati sulla disoccupazione che continuano a scendere e fanno ben sperare. I dati evidenziano soprattutto una dispersione sempre maggiore di talenti, che decidono di abbandonare le grandi corporate. Le conseguenze della pandemia, in primis il cambiamento del lavoro, sono ormai cosa nota; come commenti però questo quadro attuale?

Ci sono sicuramente vari aspetti da considerare, uno dei primi è senz’altro quello del senso. Nel post pandemia si è evidenziato un trend importante: tutti i lavoratori hanno, di fatto, cominciato a mettere in discussione il motivo principale del loro recarsi al lavoro tutti i giorni. In questo senso, oltre al fenomeno che citavi – quello del mismatch tra competenze e risorse richieste – esiste anche un’altra problematica, più evidente in questo momento, cioè quella legata al mantenimento delle persone all’interno dell’azienda. Molte risorse, non trovando più uno scopo e un senso, lasciano direttamente il lavoro; altre proseguono nella modalità quiet quitting, cioè lavorano ma “a bassa energia”, senza nessun tipo di motivazione. Esiste quindi oggi un quadro complesso, che mette in discussione il purpose stesso dell’azienda. A sua volta, tutto questo ricade a cascata anche sui giovani e sulle loro scelte di vita: prima ancora di accettare un lavoro, i neolaureati (e non solo) guardano molto a tutto quello che riguarda la flessibilità, l’autonomia e soprattutto cercano un nuovo approccio al bilanciamento della vita. Se queste indicazioni non ci sono, semplicemente, non accettano l’impiego.

Dall’altra parte, l’anno che abbiamo passato ha visto anche un importante fenomeno di layoff e licenziamenti di massa da parte delle aziende, in particolar modo quelle del settore tecnologico, soprattutto negli USA. È come se, dopo la pandemia, i capi azienda stessero cercando di riprendere in mano il timone. Il WSJ a questo proposito titolava: «CEOs reassert their authority amid layoffs; “working from anywhere went too far“». Cosa ne pensi? Probabilmente il lavoro completamente da remoto non è la soluzione migliore.

C’è sicuramente una polarizzazione oggi: da un lato, l’idea del lavoro da svolgere ancora esclusivamente in ufficio, e, dall’altro, il lavoro completamente da casa. Questa polarizzazione accende l’opinione pubblica sui vari pro e contro che, di fatto, entrambe le modalità possiedono. È chiaro che un lavoro svolto sempre in ufficio ha una certa facilità di conduzione e gestione delle risorse, per una serie di fattori: la loro prossimità, l’interazione sociale, lo scambio. All’estremo opposto, il lavoro da casa accentua il tema del well-being, del bilanciamento e dell’integrazione tra vita personale e vita lavorativa. Le persone riescono sì a gestire meglio la loro vita, ma allo stesso tempo sono isolate, perché perdono la connessione con le attività e le dinamiche sociali proprie dell’ufficio. Se continuiamo ad avere questa polarizzazione, questo tema non si risolve. È assolutamente necessario un salto di qualità.

L’ufficio centrale, a mio parere, deve continuare ad avere una sua rilevanza, rappresentando in primis un senso di comunità, facilitando lo scambio tra le persone, l’apprendimento e l’inserimento di nuovi talenti. D’altra parte, la casa non può essere l’unico luogo di lavoro (oltre che di vita): quel senso di flessibilità che si ha con il remoto dovrebbe portare a fare anche esperienze simili a quelle vissute nell’headquarter centrale, avendo però la possibilità di farle anche in luoghi di prossimità. Questa è naturalmente una sfida, perché presuppone uno sforzo organizzativo importante. Una sfida innanzitutto culturale, ma anche logistica, che deve tradursi non solo nella disponibilità, ma anche nella fruibilità di una nuova rete. Per noi tutto questo significa che occorre passare «da headquarter a hubquarter»: dove per headquarter non intendiamo soltanto l’ufficio centrale, ma anche un meccanismo di gestione delle risorse e delle attività dal punto di vista del management. Per hubquarter intendiamo, invece, un ufficio diffuso, una rete di esperienze nella quale il tema dell’hub e dello scambio presuppongono, sia per la risorsa che per il management, una vera e propria “padronanza” dei luoghi in cui tutto ciò avviene, unita a una responsabilizzazione più forte verso gli obiettivi e quindi verso i dipendenti. 

Da questo punto di vista, voi come eFM cosa avete evidenziato nella vostra sperimentazione? È sicuramente importante vedere come le persone rispondono a un contesto nuovo, come quello che state mettendo in atto voi, rispetto a un modello tradizionale.

NDR: eFM lo scorso anno ha lanciato l’Osservatorio Nazionale sui Luoghi di Lavoro: un progetto presentato anche a Montecitorio e che ha mappato in un unico database tutti i luoghi dell’abitare – lavoro, formazione, salute, intrattenimento, sport – con l’obiettivo di sviluppare soluzioni di sostenibilità per aziende, persone, città e ambiente. Nel farlo, ha rilevato alcuni dati importanti sull’impatto economico che il citato progetto Hubquarter che intende mettere in condivisione gli spazi inutilizzati delle aziende creando luoghi ingaggianti e coinvolgenti per le persone, con benefici sugli individui, sulla loro produttività e sulle aziende stesse – potrebbe avere, nella PA e nel privato. Per la PA, si parla di una stima di oltre 40 miliardi di saving, più circa 16 miliardi di impatto in sostenibilità (stimando un risparmio di circa 5 mila euro a postazione). Per il privato, si parla di oltre 100 miliardi di euro di risparmio.

Nella ricerca che abbiamo condotto (600 persone hanno condiviso questa modalità di lavoro, Hubquarter, in diversi luoghi d’Italia) sono emerse caratteristiche forti rispetto alla modalità tradizionale. Innanzitutto, abbiamo notato che c’è stato un forte livello di engagement rispetto a questa nuova disposizione: le persone che hanno partecipato hanno visto aumentare il loro senso di attaccamento verso l’azienda, grazie alla possibilità di una maggiore libertà, e hanno acquisito maggiore consapevolezza nei propri mezzi. Hanno avuto, inoltre, la possibilità di vivere rapporti sociali in modo più efficace rispetto all’abituale situazione dell’ufficio centrale: in quel caso, infatti, lo scambio sociale avviene, di media, con circa tre o quattro colleghi, di solito quelli in prossimità. In questo nuovo contesto, data la possibilità di allargare il network e scegliere luoghi diversi, le persone hanno aumentato la propria cerchia in maniera esponenziale, fino a 16 volte in più rispetto a quanto accade normalmente. Le persone hanno poi espresso il desiderio di continuare a esplorare questi nuovi luoghi, frequentandoli con assiduità. I progetti, soprattutto quelli sociali, hanno visto una risposta e una partecipazione molto alta, rafforzando quindi il senso e il motivo del trasferimento verso questi luoghi ibridi. L’assenza di una gerarchia diretta e la possibilità di vivere il tempo della socializzazione come momento non sottratto al lavoro hanno permesso la creazione di un clima positivo: i luoghi che erano già attrezzati per avere delle “piazze interne” e quelli di socializzazione sono stati di fatto i più scelti. Tutto ciò rileva come lo spazio abbia una sua importanza fondamentale nella creazione di un ambiente di lavoro piacevole, adatto sia allo scambio sia all’apprendimento. 

Parlavi di gerarchia diretta, di per sé un’impostazione culturale molto diffusa in Italia. Quello che invece forse ancora manca è l’impostazione che voi state cercando di dare – più aperta, meno incentrata sul controllo. Secondo te, è possibile pensare di attuare questo tipo di approccio in maniera più diffusa? Se sì, come? Secondo te, c’è ancora un po’ di resistenza da questo punto di vista?

Siamo ancora in una fase iniziale della transizione. Esiste indubbiamente una resistenza, anche perché ci sono problemi oggettivi di produttività, soprattutto nelle aziende più tradizionali: se il lavoro è organizzato per task e per orario, naturalmente l’assenza fisica dall’ufficio comporta alcune difficoltà. È sempre più evidente come l’emorragia del personale sia per le aziende un problema, che si combina poi con il costo delle nuove assunzioni e dei percorsi di formazione: è necessario impegnarsi verso il cambiamento. Difficile, secondo me, sarà a questo punto tornare alle vecchie modalità, anche perché c’è un desiderio molto forte di partecipazione da parte delle persone. Le aziende si stanno rendendo conto che continuare a far fare lavori a basso valore aggiunto (considerando soprattutto le possibilità raggiunte dalla tecnologia) ha poco senso; al contrario, pensare, socializzare e ideare assieme sono tre attività che aumentano il valore aggiunto per la persona. Passare da un meccanismo in cui il cosiddetto time boxing (o time sheet, ndr) è impostato su attività fortemente produttive a un time boxing più libero, in cui la responsabilità di ciascuno è quella di completare i propri task, significa mettere in primo piano la responsabilità delle persone. Il management dà gli obiettivi, poi si utilizza il tempo residuo per attività ad alto valore aggiunto. È naturale che il manager, rispetto all’impostazione precedente, debba fare un percorso di cambiamento, preparando poi tutti gli altri attori a questa transizione.

Una sfida culturale che diventa fondamentale a fronte di uffici sempre più vuoti, peraltro non solo in Italia. Come far fronte a questo problema, che sta assumendo dimensioni sempre più importanti?

Di fronte a una situazione del genere, molte aziende, come prima risposta, hanno provato a vendere i propri immobili. È chiaro che se sei il primo a farlo puoi trovare buone opportunità, ma se la quantità aumenta, il mercato non è pronto per questa riconversione. Bisogna quindi guardare all’elemento più rivoluzionario, ovvero la flessibilità. Maggiore è la flessibilità, maggiori saranno gli spazi dove poterla sfruttare. Un’azienda non può mettere a disposizione tutti i propri spazi, i costi sarebbero eccessivi. Quello che si può fare è destinare una parte della struttura all’ufficio core, rendendo il resto un hub per un certo numero di lavoratori delle altre aziende. In questo modo si portano i lavoratori fuori casa, ma in prossimità, in luoghi attrezzati, pieni di persone, di conoscenze e competenze diverse. La costruzione di questa rete finora è stata difficile, perché lo spazio è sempre stato concepito come individuale, di una singola azienda per i propri dipendenti. L’apertura e la messa a rete di spazi interaziendali, in aggiunta ai coworking, è quindi una soluzione concreta, e stiamo vedendo che, in Italia, progetti di questa natura si stanno già implementando. Il progetto Polis di Poste Italiane, per citarne uno, è un esempio fattuale di liberazione di spazio inutilizzato, riconversione e messa a disposizione sul territorio. Città non principali potranno così attrarre nuovamente a sé i propri talenti – che tendenzialmente viaggiano verso il centro – fornendo loro uno spazio diverso. Tutto ciò cambia completamente il concetto di spazio suburbano: esiste un nuovo equilibrio in grado di valorizzare il centro per la vita aziendale core e la periferia per possibilità aggiuntive rispetto allo stare a casa. 

Noi di fatto siamo la prima generazione ad aver attribuito rilevanza al benessere psicofisico sul posto di lavoro. In questo senso come si crea un posto “ingaggiante”? In base alle vostre sperimentazioni, di che cosa hanno bisogno le persone per aver voglia di andare in ufficio? Voi come eFM come create un ambiente di lavoro piacevole per le persone?

Ci sono alcuni ingredienti fondamentali perché questo possa avvenire. L’ufficio, dal punto di vista estetico e funzionale, deve essere organizzato in modo tale da poter permettere al dipendente di scegliere come utilizzare lo spazio. Ci deve essere quindi una pluralità di spazi organizzati: per il brainstorming, per il meeting a due, per il feedback, per la lettura. Ci deve poi essere un’organizzazione delle attività interne che stimoli incontri, collisioni, scambi, attraverso le dinamiche di gruppo. Sono necessari, infine, spazi di vita personale all’interno dell’ufficio, che consentano di essere percepiti come individui, anche quando lavoriamo, sia nell’ufficio centrale che nei vari satelliti descritti prima. Con il sopravvento del digitale si è dimostrato un aumento dell’affaticamento e della stanchezza fisica e mentale, un accumulo di stress, e questo impatta sulla salute: pensare al well-being è quindi uno dei pilastri fondamentali per potere dare nuova energia alle persone, aumentando il loro benessere in azienda e quindi la loro produttività. 

Un’ultima domanda: tu sei in eFM dai primissimi anni e ne hai guidato l’internazionalizzazione – portandola da azienda-piattaforma innovativa di scenario italiano a grande corporate mondiale, punto di riferimento del mercato del real estate. Ci vuoi raccontare un po’ il tuo percorso, dal 2001 alla nomina a CEO nel 2014, ma anche l’avventura di Venture Thinking, con questo connubio all’apparenza lontano di filosofia e imprenditorialità?

Il mio è un percorso fatto in primis di persone: amici e colleghi nei quali ho sempre trovato ispirazione, stimolo e un sostegno autentico, che nasceva da un legame di fiducia. Questo ha permesso a tutti noi di percorrere un viaggio di costante trasformazione, in ascolto rispetto ai cambiamenti, alle nuove necessità, ai bisogni complessi della società, ricercando soluzioni sostenibili che avessero al centro le relazioni e che vedessero nello spazio molteplici possibilità di esperienza. Lo abbiamo fatto in Italia, e poi in tutto il mondo, esportando la nostra proposta nei principali mercati internazionali. Come in tutte le storie, ci sono stati momenti di maggiore difficoltà, ma avere chiaro l’obiettivo ha sempre rappresentato un elemento di forte accelerazione e anche di spinta verso modelli nuovi. 

Venture Thinking è nata così: dall’evidenza, durante la pandemia, che il mondo e il nostro modo di intendere lo spazio e il lavoro erano improvvisamente stravolti. Sentivamo il bisogno di reinventare modelli di pensiero sostenibili, di ridefinire il purpose e la mission delle aziende, di costruire nuovi approcci, e di fare tutto questo insieme. Così abbiamo aperto un tavolo a cui hanno preso parte pensatori e innovatori di tutto il mondo, università, centri di ricerca, grandi aziende e startup. Ne è nato un acceleratore di idee in cui il legame tra “fare impresa” e “filosofia” rappresentava una dimensione di ricongiungimento e ricucitura, restituendo a tutti noi un orizzonte di complementarietà tra pensiero e azione. Oggi è una fondazione, che conserva questa sua connotazione di luogo di confronto e di proposta su scala mondiale, con un focus specifico sull’ecosistema come orizzonte di riferimento per lo sviluppo sostenibile della collettività.

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