Startup, anche l’Italia ha la sua “Silicon Valley”

Parla Cristina Angelillo, CEO e fondatrice di Marshmallow Games: è di Bari la startup che crea app per bambini fra le più scaricate al mondo nella classifica di Apple 

Una tech company leader nel suo settore, un headquarter open space con area caffè e cucina, poltrone ergonomiche dai colori sgargianti, giardino e piscina, sviluppatori in trasferta e una CEO entusiasta e in prima linea nel mondo digitale: potrebbe essere la descrizione di una qualsiasi azienda della Silicon Valley, ma si tratta di Marshmallow Games, impresa italiana nata nel 2014 che crea app educative e videogiochi per bambini, fondata a Bari e rimasta, orgogliosamente, sul territorio. Inclusa da Apple nella classifica delle migliori app in oltre 160 Paesi, scaricata, ad oggi, da più di 2 milioni di utenti, Marshmallow Games è guidata da Cristina Angelillo, CEO e fondatrice, alla quale abbiamo chiesto come un’idea nata sul suo divano di casa (anche qui la scenografia, metaforicamente e non, è poco distante dall’iconico garage) sia divenuta nel tempo una delle app più apprezzate nel settore dell’intrattenimento educativo per bambini. 

Startup

Prima domanda: raccontaci un po’ il tuo percorso

All’inizio e per alcuni anni il mio percorso è stato tra i più classici: pugliese, mi laureo in ingegneria delle telecomunicazioni e vengo assunta da un’azienda del settore; inizio, quindi, facendo quello per cui avevo studiato, direi un po’ quello che i genitori vorrebbero che tu facessi. Dopo circa cinque anni sono rimasta incinta, per cui sono stata costretta dalle contingenze del momento a fermarmi a pensare in maniera un po’ più critica a quello che avrei voluto fare nella vita. Ho così deciso di mollare il lavoro che avevo perché di fatto non era la mia vera passione, e ho pensato di provare a dedicarmi a quello che invece mi faceva “battere il cuore”, cioè i bambini e l’insegnamento. Sostanzialmente, ho voluto utilizzare e sfruttare il mio background tecnico per altri scopi, per qualcosa che sentivo più nelle mie corde. Così ho fondato Marshmallow Games. Questo accadeva ormai quasi 9 anni fa. L’idea di rimanere al sud è venuta fuori un po’ da sola, senza grandi costrizioni. Abbiamo iniziato qui, poi abbiamo fatto un percorso di accelerazione a Milano, dove chiaramente si respirava – soprattutto in quegli anni – un’aria completamente diversa. L’idea di restare ci è venuta più volte, anche perché a Milano era molto più facile conoscere, banalmente, potenziali investitori e persone che facevano il nostro stesso lavoro; parallelamente, qui, quando abbiamo iniziato, parlavamo una lingua completamente sconosciuta e quindi era anche più complesso confrontarsi. Nonostante tutti questi fattori, abbiamo comunque deciso di restare in Puglia, o almeno provarci: è stata una questione per lo più istintiva ed emozionale, ci siamo detti: «Perché andare via come fanno tutti? Almeno proviamoci, sbattiamoci la testa se necessario, al massimo diremo che non si può fare». 

Ed è andata bene. Una decisione un po’ controcorrente, Milano è la città della finanza, delle banche, dei fondi, sicuramente un terreno potenzialmente molto fertile per una realtà come la vostra. Quali sono state le sfide principali per chi come voi ha deciso di rimanere sul territorio?

Noi, da subito, ci siamo sviluppati come realtà intrinsecamente internazionale. La nostra app è nata in italiano ma subito dopo è stata tradotta in diverse lingue; abbiamo immediatamente sentito una forte spinta verso l’estero, sapevamo che era il modo per distinguerci ed emergere. Da sempre, vendiamo infatti più all’estero che in Italia. Le sfide sul territorio sono state diverse; in primis, sicuramente una mancanza di networking e di relazioni potenzialmente utili al nostro settore, che è pesata soprattutto nei primi anni; l’abbiamo compensata mantenendo “un piede sempre fuori”, viaggiando molto e cercando di confrontarci continuamente con altre realtà, in primis internazionali ma anche italiane, guardando cioè al resto del nostro Paese. Credo infatti che sia fondamentale, quando si decide di rimanere in un territorio “meno florido”, mantenere un approccio che ha sempre e comunque “un occhio verso l’esterno”, per non rimanere ingabbiati dove si è. Siamo rimasti qui per riuscire a costruire qualcosa non solo per noi, ma anche per il nostro territorio. Avevamo però, in questo senso, bisogno di confrontarci con realtà nelle quali davvero si stava facendo il nostro business e abbiamo quindi, ad esempio, frequentato tante fiere internazionali. 

Siete andati molto in giro anche per incontrare personalmente potenziali investitori.

Assolutamente sì, a questo servono le occasioni di networking: ti aiutano molto a confrontarti, a vedere cosa stanno facendo gli altri in un settore come il tuo. È evidente che, se rimani nel tuo territorio e parli sempre con le stesse persone – nel nostro caso, pochi – diventa complesso. È però anche giusto dire che ci sono stati e ci sono diversi lati positivi nel restare al Sud, in primis molte agevolazioni e finanziamenti. Poi, è inutile nascondere che, in un  meno “frizzante” dal punto di vista delle startup, il fatto di essere una donna che fa impresa – soprattutto in questo campo, notoriamente appannaggio degli uomini – ti dà la possibilità di emergere più facilmente, e questo ci ha aiutato in termini di visibilità. Se fossimo stati a Milano, in mezzo a tante realtà simili alla nostra, avremmo sicuramente fatto più fatica.

Quando avete realizzato che la vostra app stava avendo successo? Qual è stato il momento di svolta?

Quando siamo usciti con la nostra prima app si trattava di un NVP (un Net Value Product, ndr), un minimo prodotto fattibile. Di fatto l’idea mi è venuta un giorno a casa, con l’aiuto del mio compagno che all’epoca sviluppava. Ho materialmente iniziato a scrivere delle storie e disegnare dei personaggi, ho inventato tutto da zero. Si trattava di qualcosa che in quel momento era solo in italiano e solo per iPad: è stata una scommessa, ci siamo detti: “Vediamo se la gente se la scarica, se piace o meno”. Il fatto che Apple, dopo sole due settimane dall’uscita, abbia deciso di metterla in primo piano e darle visibilità ci ha fatto pensare: il sistema di Apple è meritocratico, non si può pagare, premia solo ed esclusivamente le app che hanno un buon riscontro perché considerate un buon prodotto. Lì abbiamo iniziato a pensare che forse poteva funzionare. Inutile dire che negli anni abbiamo avuto tante fasi e tanti up&down. Le fasi di svolta generalmente hanno coinciso con gli investimenti più importanti: quando siamo stati in grado di assumere personale e di ingrandire, quindi, il nostro team e le varie competenze. Il business B2C è un business complesso: ha bisogno di tanti investimenti, è cash intensive. Va un po’ capito, e soprattutto in Italia è complicato perché di fatto è molto rischioso. Abbiamo quindi dovuto combattere anche con questo fattore negli anni, è stata una sfida molto complessa, che stiamo ancora portando avanti. Quando mi dicono “sei arrivata”, di fatto rispondo che no, noi non siamo arrivati da nessuna parte: è un processo in continua evoluzione e bisogna stare al passo. 

Siete basati a Bari ma la vostra app è scaricabile ovunque. Quali sono i Paesi in cui vedete un maggiore successo? 

Noi siamo molto focalizzati sugli Stati Uniti: si tratta di un mercato super inflazionato, ma le ragioni sono molteplici. La propensione all’acquisto è sicuramente molto più alta rispetto all’Italia; quindi, parallelamente, costa di più acquisire nuovi utenti, ma, nonostante questo, gli USA restano comunque il nostro primo mercato di riferimento; è anche uno dei Paesi in cui la tassazione è molto bassa. Le nostre app sono disponibili in 5 lingue, perché stiamo spingendo molto, in realtà, su altri mercati. La nostra idea è quella di provare a creare dei business paralleli che possano dare buoni risultati in Paesi dove magari la digitalizzazione è meno spinta, fattore che naturalmente rende l’ingresso in questi stessi mercati ancora più complesso. 

Quali sono i Paesi verso i quali vi state spingendo di più?

La nostra app è in inglese, italiano, spagnolo, francese e tedesco. Quindi in Europa andiamo su UK, Spagna, Francia e Germania, ma anche Belgio, Austria – insomma tutti quei Paesi che coprono queste lingue. Fuori dall’Europa, puntiamo anche su Australia e Canada. 

Come abbiamo già menzionato, il vostro “stare sul territorio” ha sicuramente avuto dei vantaggi. In primis, ti ha aiutato a spiccare come figura imprenditoriale femminile in un settore, al Sud, un po’ poco visibile. Immagino però abbiate dovuto affrontare anche delle difficoltà. 

Mi piace sempre raccontare un fattore che ci contraddistingue, per me particolarmente significativo. Noi non abbiamo un team di pugliesi: siamo variegati, circa 1/3 delle nostre risorse viene da fuori. Lavoriamo tutti in presenza, abbiamo quindi fatto trasferire molte persone qui da noi. In questo momento abbiamo un team di 22 italiani da ogni parte della penisola; Bari è una città con un bel clima, si sta bene, come in molte città del Sud. Abbiamo notato che le nostre risorse, una volta trasferite qui, poi non vogliono più andare via. Siamo orgogliosi del fatto che riusciamo senza troppa fatica a far spostare persone, abbiamo anche fatto rientrare qualche risorsa che dal Sud si era spostata al Nord. Il nostro business è abbastanza di nicchia ma accattivante, perciò abbiamo anche un certo appeal rispetto ad altri tipi di aziende più “tradizionali”.  

Offrite anche diversi benefit, e i vostri uffici sono piuttosto “americani”. 

Sì esatto. Abbiamo un headquarter di impostazione americana, con spazi aperti e piscina. Per noi è molto importante il benessere dei nostri dipendenti, crediamo molto nel circolo virtuoso che si crea nel lavorare e nello stare insieme; andiamo un po’ controcorrente rispetto alle politiche del remote working, anche se ora, forse, c’è un po’ un ripensamento in questo senso. Quando abbiamo lavorato separati durante il lockdown abbiamo notato che qualcosa si perdeva. Siamo una squadra affiatata, ci troviamo spesso anche fuori dal lavoro, penso che il nostro ambiente familiare sia una delle chiavi del nostro successo. In ufficio abbiamo tutte le facilities che servono, ci si sente a casa. Va detto che le riunioni, durante il lockdown, erano probabilmente più efficaci: non ci si perdeva in chiacchiere e si andava dritti al punto. Mancava però quel qualcosa in più, quello scambio che puoi avere solo in ufficio chiacchierando davanti a un caffè, quelle dinamiche di socialità che aiutano anche il processo creativo.

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