Addio quiet quitting

Il caso quiet quitting è stato un vero caso “social”, trend topic con oltre 9 milioni di visualizzazioni, solo su TikTok. Tra i primi a raccontarlo l’ingegnere ventenne di New York Zaid Khan, sul suo profilo TT @Zaidleppelin da quasi 1 milione di follower – con un video in cui spiegava cosa vuol dire non conformarsi a una cultura del lavoro che impone ritmi massacranti, fatti di obiettivi da raggiungere entro una certa età e che in generale implicano il dare molto di più di quanto richiesto e di quanto si è pagati. Da quel momento è stato un fiume in piena.

Tra le istanze del quiet quitter c’era quello di fare il minimo indispensabile per cui si è effettivamente pagati, senza cedere ai sensi di colpa e/o al “ricatto morale” del soddisfare richieste sempre maggiori per non essere etichettati come “un lavoratore a basso valore aggiunto” (accettando anche straordinari, mail/telefonate in orari fuori dal lavoro, per la maggior parte delle volte non retribuiti). 

A ben vedere, il fenomeno del quiet quitting non è una novità, ma sembra essere tornato sotto i riflettori con la pandemia: un evento che ha portato molti, in particolare giovani Millennials e della Generazione Z – spesso costretti a confrontarsi con un mercato del lavoro che dà loro scarse prospettive di stabilità e opportunità di crescita – a ridefinire le priorità di vita e il proprio rapporto con il lavoro, cercando un migliore equilibrio esistenziale e la realizzazione personale anche in altri aspetti dell’esistenza. In pratica, un caro saluto alla retorica fordiana del duro lavoro, mostrato come status symbol.

A confermare la macro tendenza anche un recente White Paper di Twenix, che indica che il 95% degli intervistati considera la compatibilità con la vita privata l’aspetto più importante sul lavoro (a pari merito con la retribuzione). Ma a qualche mese di distanza, che fine ha fatto il quiet quitting? È davvero una tendenza così diffusa, specie tra le nuove generazioni, oppure un fuoco di paglia, istanza già soffocata dal sistema?

Una parziale risposta è un articolo sul Business Insider uscito di recente, un’intervista al lavoratore Justin (nome di fantasia), che era stato tra gli ispiratori del movimento del quite quitting. La giornalista è tornata ad intervistarlo sei mesi dopo una prima intervista, proprio per capire se Justin fosse ancora coinvolto nel suo “abbandono silenzioso”. Per tutta risposta Justin è tornato a lavorare le canoniche 50 ore settimanali americane. Questo perché dopo il licenziamento di diversi colleghi, Justin ha temuto di poter essere il prossimo e ha dovuto invertire la tendenza tornando, come racconta la giornalista Aki Ito, «a fare un po’ troppo di più».

È indubbio che nel fare o non fare, entrano in gioco scelte personali, ma in ogni caso la storia di Justin ci insegna che le nostre azioni – lavorative e non – hanno delle conseguenze. Nel caso di Justin quello di dover ri-aggiustare un rapporto lavorativo diventato tossico, tornando a lavorare di più per scongiurare un possibile licenziamento.

Forse prima di arrivare a prendere la decisione di lavorare il minimo indispensabile è bene farsi una domanda: come posso migliorare la situazione nel mio lavoro e cambiare le cose che non mi soddisfano? Per gli esperti ci sono delle risposte efficaci. Prima di tutto quella di iniziare un dialogo costruttivo con i superiori su questioni come il superlavoro e il burnout. Quando possibile ovviamente. E poi imparare a dire di no a lavori che non ci competono, ma che facciamo perché ce l’hanno chiesto. Lo suggerisce, per esempio, Jay McDonald, executive coach e autore americano a Business Inder: “Dire di no” a compiti improduttivi è una mossa potente per i lavoratori sull’orlo di un esaurimento. Ciò potrebbe significare qualsiasi cosa, dal rifiutare il lavoro che non è nelle mansioni, o rinunciare a riunioni che fanno perdere tempo e aggiornare invece i membri del team con una rapida e-mail. A volte i leader sono gli ultimi a saperlo, se non hanno il polso di quello che sta succedendo e potrebbero anche non rendersi conto di quanto tempo stia impiegando qualcuno, soprattutto se non li vedono fisicamente in maniera regolare. I lavoratori che rifiutano il lavoro inutile e si concentrano solo su vittorie importanti non solo evitano il burnout, ma magari si prendono le lodi e persino un aumento. 

E se tutto questo non è possibile, perché non ci sono spazi di aggiustamento significativi, allora la faccenda è forse più semplice, come racconta sempre a Business Insider l’autore e consulente aziendale George Nagle: «Se non trovi nulla di gratificante nel tuo lavoro e che non sia aggiustabile, forse è il momento di un cambiamento importante che richiederà coraggio».  

Il coraggio è la leva che ci fa compiere le decisioni più significative della nostra vita. E il lavoro non è da meno. 

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