Quando un lavoro non basta

Anche se la nostra Costituzione recita che il lavoro nobilita l’uomo, l’Italia è il quarto Paese per “lavoro povero” in Europa (11,8% del totale contro una media Ue del 9,2%) dopo Romania, Spagna e Lussemburgo.  

La fotografia, peggiorata con il Covid-19, emerge nel Rapporto Interventi e misure di contrasto alla povertà lavorativa stilato dagli esperti nominati dal ministro del Lavoro Andrea Orlando. Uno studio che va oltre l’analisi, proponendo una sorta di road map “salva-povertà” in cinque tappe. 

La realtà

Il dato più rilevante che emerge è che avere un lavoro non basta per evitare di cadere in povertà. Questo anche a causa dei tanti contratti a ore di cui è costellato il sistema di welfare italiano. In Italia, infatti, un quarto dei lavoratori si trova in una situazione al limite. Vive cioè in un nucleo con reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana, sotto i 12mila euro l’anno.  

Lo studio apre poi un’importante riflessione. Non si basa su meri calcoli salariali, ma riguarda i tempi di lavoro. Quante ore si lavora abitualmente a settimana e quante settimane si lavora nel corso di un anno.  

Questa variabile viene poi messa in relazione con la composizione familiare (e in particolare quante persone percepiscono un reddito all’interno del nucleo). Insomma, i “contrattini” o contratti brevi entrano nell’analisi.  

Avere quasi la metà delle lavoratrici impegnate con contratti di pochissime ore, sotto il livello standard è un problema per un Paese come l’Italia. Questo succede anche agli uomini, ma solo nel 20% dei casi. Così come sapere che il 75% di chi lavora meno di metà anno rischia di diventare lavoratore povero contro il 20% di chi lavora tutto l’anno (e il 14% se lavora tutto l’anno a full time). 

«Una strategia di lotta alla povertà lavorativa richiede una molteplicità di strumenti per sostenere i redditi individuali, aumentare il numero di percettori di reddito, e assicurare un sistema redistributivo ben mirato», ha detto il ministro Orlando ricordando i numerosi segnali già dati con la Legge di Bilancio, con la riduzione dell’uso arbitrario dei tirocini e con l’introduzione del Fondo per la parità di retribuzione tra uomo e donna. 

Senza contare, ha aggiunto, il prossimo varo della Direttiva UE sul salario minimo che «offrirà supporto anche contro il lavoro povero».  

Le soluzioni

Partendo da qui, il gruppo di lavoro ha avanzato cinque soluzioni da mettere a terra per garantire minimi salariali adeguati:  

  • estendere i livelli minimi garantiti dai contratti nazionali di lavoro a tutti i lavoratori; oppure introdurre il salario minimo per legge (magari iniziando da settori “pilota”) 
  • accrescere il rispetto dei minimi salariali con una più efficace vigilanza  
  • introdurre trasferimenti pubblici per chi lavora e ha salari bassi come avviene altrove in Europa con l’in-work benefit  
  • incentivare il rispetto delle norme con il “bollino di qualità” per le aziende che rispettano i minimi salariali e l’equa retribuzione tra uomini e donne, accompagnando questa azione con una campagna informativa per i lavoratori sui diritti, lettura della busta paga e prospettive previdenziali 
  • promuovere una revisione dell’indicatore europeo della povertà lavorativa. 

«Continueremo, con ancora più determinazione, sulla strada intrapresa» ha concluso il Ministro. « La pandemia da Covid-19 ha accentuato il fenomeno. Ha esposto a più alti rischi di disoccupazione chi aveva contratti atipici e ha ridotto il reddito disponibile di chi ha avuto accesso agli ammortizzatori sociali e alle misure emergenziali introdotte per far fronte alle conseguenze della recessione».  

A queste misure, spiegano i tecnici del Ministero, è poi possibile affiancare altre iniziative per incentivare le imprese a pagare salari adeguati con forme di accreditamento (si veda, per esempio, l’esperienza del Living Wage nel Regno Unito). 

Per i lavoratori, poi, servono strumenti e campagne per aumentare la leggibilità dei CCNL e dei vari strumenti di sostegno al reddito per assicurarsi che i lavoratori che ne hanno bisogno possano avervi effettivamente accesso. Infine, un più facile accesso ai tanti dati che le amministrazioni pubbliche (nazionali e locali) raccolgono nell’espletamento delle loro funzioni sul modello “VisitINPS” consentirebbe di promuovere la ricerca in materia e misurare l’effetto che strumenti diversi possono avere nel contrastare questo fenomeno.  

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