«La natura dell’uomo non è di avanzare sempre, ha i suoi alti e i suoi bassi». Così scriveva il matematico e fisico francese Blaise Pascal a cavallo del Seicento. Gli alti e i bassi qualche settimana fa sono stati messi nero su bianco – di più, immortalati in un disegno dai colori pastello – in un’iconica copertina del New Yorker realizzata da Kikuo Johnson. L’artista ha messo in scena un’immagine metropolitana: una mamma che prende in braccio la carrozzina e si incammina per le scale che portano ai treni. Al piano di sopra, al piano di sotto è il titolo della cover. Un invito a ripensare le città, gli spazi di lavoro, i contesti sociali in modo accessibile con servizi su misura per cittadini o clienti. Sottovalutare questa richiesta significa anche disperdere opportunità di business con una miopia che non fa cogliere appieno come l’ascolto dei bisogni di ciascuno possa rappresentare un fattore critico di successo. E allora, quanti volti e quante voci oggi ha una comunità cittadina o aziendale? E ancora, nel tempo segnato dalla crescita esponenziale dei modelli di intelligenze artificiali quanto passa ancora per quella componente empatica e relazionale che l’Harvard Business Review definisce «la nuova era conversazionale»? E in questo scenario che declina la nuova economia dell’incertezza, per un’azienda conta più l’essere o più l’avere? Ossia fuori di metafora, vale più l’autenticità o invece il portfolio di prodotti e servizi?
La verità è che mai come in questo anno di mezzo del decennio di mezzo – così definito recentemente da Forbes – le organizzazioni hanno bisogno di rafforzare l’ascolto di ogni professionista, fornitore, cliente consolidato o ancora potenziale. A contare sono le esigenze manifeste e quelle che covano sottotraccia, destinate poi a diventare palesi. «I consumatori non si preoccupano di te, si preoccupano principalmente di loro stessi», ha scritto Dave Kerpen sul New York Times. Così un’azienda deve imparare a esserci per davvero, senza necessariamente esserci in modo invadente, ingombrante, ridondante. Deve essere in ascolto e paradossalmente persino invisibile. Deve essere frictionless, si potrebbe dire. Ossia senza attrito, come ha scritto Kevin Roose. Torniamo all’ascolto. Perché intraprendere questo percorso sembra facile, quasi banale, però è assai difficile. È una propensione alla centralità della persona nelle sue diverse sfaccettature che si deve leggere nelle strategie di posizionamento, nei valori espressi, nel purpose che diventa la ragion d’essere dinamica, contemporanea, coraggiosa. Così oggi bisogna davvero chiedersi come parlare di lavoro tralasciando le ore e passando agli obiettivi. O ancora come riscoprire la dimensione professionale intesa come passione o persino come missione. E anche come ripensare i processi venendo incontro alle nuove generazioni. Tutto ciò richiama alla sfida contemporanea dell’azienda: essere coerente, consistente, consapevole per le comunità che la vivono. Provare a immaginare il lavoro del domani, partendo dagli interrogativi che ci poniamo già oggi. Per fare tutto questo abbiamo bisogno di bussole che possano orientarci. Perché la partita si gioca su un terreno accidentato, con dislivelli impensabili rispetto al passato. Le bussole ci guidano su mappe da riscrivere che devono capitalizzare la conoscenza del passato – la propria identità con quel capitale narrativo che diventa capitale reputazionale – e al contempo fiutare ciò che si palesa nel futuro, individuando quelle tracce che raccontano un cambio di passo. D’altronde viviamo scenari incerti legati agli assetti di potere nella geopolitica, mai come oggi così instabile. Abbiamo bisogno di costruire relazioni autentiche che sanno ricostruire, anche dopo gli eventi disastrosi che ci hanno coinvolto e che ancora ci circondano. Abbiamo bisogno di tempo e di alleanze, ossia di creare sinergie per far fronte alle trasformazioni. Me lo ha detto Seth Godin – guru mondiale del marketing contemporaneo, da qualche mese in libreria col suo nuovo bestseller Questo è strategia per Hoepli e che ho intervistato per il Sole24Ore. Uno slogan apparente, che però racchiude molto di più. Una visione che si estende nel tempo e che abbraccia le persone di un’azienda, i clienti e le comunità. Un’idea di organizzazione più consapevole, più responsabile, più visionaria perché estesa nel tempo. E in fondo anche più aperta alle sfide sociali. «Più noi, meno me. Più dopo, meno ora. La strategia è centrale perché è la filosofia del divenire: delinea un approccio resiliente al futuro perché si concentra sul cambiamento che speriamo di apportare. Le organizzazioni sono più a loro agio con la tattica, ma questo approccio col tempo ci delude. Ci vuole visione e questa si attua nel tempo. La Banca di Svezia è stata fondata nel 1668 e non mostra segni di cedimento. Il Gran Bazar di Istanbul è ancora riconoscibile cinquecento anni dopo la sua fondazione. A vincere sono i modelli persistenti che si sanno adattarsi alle nuove sfide senza perdere identità perché sono sopravvissuti ai cambiamenti tecnologici, culturali e organizzativi», dice Godin. Mettersi nei panni dell’altro o come recita un antico proverbio indiano «camminare per tre lune nelle sue scarpe». Un auspicio, oltre che una necessità.
*Il presente articolo è tratto dall’ultima edizione di LINC uscita a giugno 2025. L'illustrazione di copertina è stata realizzata da Gio Pastori.
Giampaolo Colletti è un giornalista professionista e autore. Scrive di marketing e innovazione sulle pagine Sole24Ore. È direttore del magazine Startupitalia. È autore e inviato per la trasmissione televisiva XXI Secolo in onda su Raiuno. Tiene lezioni di social media management all’Università Iulm e all’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino.