L’anomalia italiana: come comprendere le cause delle grandi dimissioni

Il testo che segue è tratto dal volume Le Grandi Dimissioni, di Francesca Coin, edito da Einaudi, rielaborato per l’occasione per LINC.

Grandi dimissioni

Quando i giornali hanno iniziato a discutere di Grandi dimissioni negli Stati uniti, un esito di questo tipo in Italia mi sembrava improbabile. Da un lato, le cause del malessere non potevano essere più chiare. Il Global Workplace Report del 2022, la rilevazione con la quale la società di indagini statistiche Gallup Poll “misura” la soddisfazione dei lavoratori e delle lavoratrici, osservava che in Italia la percentuale di persone soddisfatte del proprio lavoro è pari al 4 per cento: la percentuale più bassa in tutti i continenti. Nel contempo, l’Italia è ultima quanto a opportunità percepite nel mercato: più che in tutti gli altri Paesi europei, le persone intervistate pensano che non sia un buon momento per trovare lavoro. Un elevato tasso di insoddisfazione, dunque, in un contesto dove le opportunità sembrano inaccessibili: queste due condizioni ben descrivono il mercato del lavoro in Italia. Per questo, quando è cominciato il dibattito sulle Grandi dimissioni, un potenziale incremento del tasso di dimissioni volontarie in Italia non mi sembrava probabile. Negli Stati Uniti, per tutto il corso del 2022, la disoccupazione era ai minimi storici. C’erano, in altre parole, due posti di lavoro disponibili per ogni persona disoccupata. In Italia, nel terzo trimestre 2022, c’era un tasso di disoccupazione al 7,9 per cento, che arrivava al 23,71 tra i giovani. Negli stessi mesi, inoltre, c’erano circa 2,3 milioni di persone disoccupate e 2,5 milioni di scoraggiati, per un totale di quasi 5 milioni di persone fuori dal mercato del lavoro. Se ci fermassimo a questa istantanea, potremmo dire che il quadro è molto diverso rispetto a quello degli Stati Uniti: in Italia, infatti, c’è un posto di lavoro disponibile ogni quattro, quasi cinque, persone disoccupate, senza nemmeno prendere in considerazione gli scoraggiati. Chi lascia il lavoro, dunque, corre il rischio di non trovarne un altro. In Italia, tuttavia le dimissioni volontarie sono aumentate nonostante questo

Nel 2021 ci sono stati quasi due milioni di dimissioni volontarie, e la soglia è stata superata nel 2022. Nel terzo trimestre del 2022, il tasso di abbandono era al 3,2 per cento, il più elevato negli ultimi quindici anni. Il rapporto annuale 2022 sulle Comunicazioni obbligatorie, curato dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, ha offerto una prima istantanea sulla geografia delle dimissioni volontarie in Italia nel 2021. L’aumento tendenziale rispetto al 2020, infatti, era pari al 30,6 per cento. Sempre secondo il rapporto, in quell’anno il fenomeno coinvolgeva principalmente le regioni del Nord, in particolare Lombardia e Veneto, dove le cessazioni richieste dal lavoratore avevano incrementi superiori rispetto all’anno precedente (rispettivamente +37,7 e +34,9 per cento) e un po’ più bassi nel Mezzogiorno, dove gli incrementi erano comunque elevati: Molise (+21,8), Lazio (+23,9), Puglia (+17,3), e Sicilia (+18,9).

Negli ultimi mesi, diversi rapporti hanno provato a spiegare quanto stava accadendo. Un’utile fotografia della situazione l’ha offerta il 5° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, che descrive la condizione lavorativa in Italia nei mesi immediatamente successivi alla pandemia. Per il Censis, i lavoratori in Italia sono profondamente insoddisfatti: l’82,3 per cento di essi è scontento e ritiene di meritare di più, un dato che aumenta sino all’86 per cento tra i giovani e all’88,8 tra gli operai. Scrive il Censis: «C’è una latente, sommersa, ma intensa insoddisfazione verso il proprio lavoro. Prevale tra i lavoratori l’idea di meritare di più e che il lavoro non dia il riconoscimento necessario per generare identità e appartenenza». Il rapporto del Censis dipinge una situazione assai simile a quella del Gallup Poll, fatto di lavoratrici e lavoratori con elevato tasso di insoddisfazione, in un mondo privo di opportunità. Le cause dell’insoddisfazione sono molteplici. In Italia, il pessimo stato retributivo si affianca alle mancate gratificazioni, in un contesto sempre più spesso precario, costellato di contratti a termine e di lavoro dequalificato. In un mercato del genere, la maggioranza degli individui si sente in gabbia, costretta a tenere il lavoro obtorto collo nonostante l’elevato livello di insofferenza. È un quadro non rassicurante, che indica una normalità lavorativa segnata dall’insicurezza e dall’insoddisfazione, nella quale il desiderio di cambiare è scoraggiato esclusivamente dalla paura di non trovare un altro impiego.

Il rapporto Censis del 2023 integra questa lettura con un’analisi ancora più specifica. Per il rapporto, circa una persona su due, se potesse, cambierebbe lavoro. Secondo l’istituto di ricerca, inoltre, il rapporto soggettivo degli italiani con il lavoro è cambiato. In questa fase, tale rapporto è sintetizzato da questa frase, a indicare un cambio radicale rispetto alla cultura lavorativa di pochi decenni fa: «Il lavoro mi serve solo per avere soldi di cui ho bisogno». Lo pensa il 64,4 per cento degli occupati e questo approccio strumentale al lavoro come una modalità per recuperare il denaro necessario per vivere e poi dedicarsi ad altro aumenta al 76,6 per cento nelle persone con al massimo la licenza media. Il Censis avvisa, in questo senso, che trattenere questi lavoratori sarà una sfida, perché «la disaffezione, l’estraneazione dal lavoro nel lavoro e, anche, la propensione ad andarsene verso altre aziende è molto forte tra essi, e la loro dipartita in massa o un loro allentamento diffuso del loro impegno potrebbero avere effetti tremendi sulle aziende coinvolte».

Per la nostra analisi, è utile comprendere come cambiano le cause della disaffezione da settore a settore. Nel settore delle costruzioni, ad esempio, negli ultimi due anni c’è stato un elevato numero di ricollocazioni dovuto alla forte dinamicità che ha contraddistinto il comparto alla fine della pandemia. In altri casi, è stata la scarsità delle competenze esistenti a generare un aumento della domandaparliamo di professionalità tecniche e scientifiche che spesso migrano all’estero o dove le condizioni sono migliori a causa dell’elevata domanda che caratterizza il settore. In altri casi ancora, la fuga dal lavoro indica aree di disaffezione nelle quali è particolarmente difficile trattenere il personale, come accade nel settore della ristorazione e dell’accoglienza o nel commercio all’ingrosso e al dettaglio. Nel caso dell’accoglienza e della ristorazione in Italia come negli Usa, moltissimi disoccupati che in precedenza lavoravano nel settore non sono stati propensi a ritornarvi dopo la pandemia. In questi casi, si parla spesso di rigidità dell’offerta: quello strano fenomeno che fa sì che le aziende non riescano a trovare personale nonostante l’elevato numero di disoccupati, scoraggiati e inattivi. È qui che è necessario comprendere per quali ragioni ci sia chi rifiuta un lavoro anche se ne ha bisogno e chi se ne va, anche se non ha un’alternativa in mano. Per comprenderne le cause, è necessario fare una serie di operazioni: accantonare l’idea bucolica per cui lascia solo chi se lo può permettere e tornare a parlare con chi lavora. È necessario comprendere, infatti, quali fattori nell’attuale organizzazione del lavoro influenzano questa disaffezione e in quale modo possono essere riformati.

Articoli Correlati