Tutta la vita

«E io ancora mi sveglio aspettando un messaggio che non arriva… tutta la vita». Così canta Drast, cantautore 2001, in un verso che sintetizza la ricerca della sua generazione: l’attesa vana di un messaggio d’amore. La canzone, intitolata Tutta la vita, si riferisce a una ragazza sparita all’improvviso, ma quando nel finale chiede: «Dove sei andata?», la domanda si può adattare alla vita stessa, promessa d’amore non mantenuta. Ed è infatti questa la domanda dei ragazzi con cui ho a che fare tutti i giorni a scuola: dove è finita la vita? Hanno tutto per essere viventi, ma poco per essere vivi. Il combinato di consumismo, nichilismo e individualismo (che chiamo CONIND, vera pandemia esistenziale) di cui li abbiamo dotati paralizza il desiderio e quindi il destino, rendendoli anzitempo apatici, impauriti o depressi. Ma il dolore è anche la loro salvezza, perché il desiderio non può essere mai distrutto, è più radicale della paura di non essere abbastanza: la spinta a nascere sempre di più caratterizza gli umani, che sanno coniugare i verbi al futuro e sono apparsi sulla Terra cominciando a seppellire i loro simili, convinti che l’oltre, non la morte, ha l’ultima parola. A ispirare quest’oltre è il desiderio: principio di umanizzazione e animazione della vita, che sin da bambini impariamo ad allenare o distruggere guardando quello che desiderano gli adulti. Lo diceva già due secoli fa Leopardi: «Sebbene spento nel mondo il grande e il bello, non ne è spenta in noi l’inclinazione. Se è tolto l’ottenere, non è tolto né possibile a togliere il desiderare. Non è spento nei giovani l’ardore che li porta a procacciarsi una vita, e a sdegnare la nullità e la monotonia» (Zibaldone, agosto 1820).

Sta a noi adulti nutrire il loro desiderio e non solo il loro stomaco, non scambiare la gioia (creare/amare) con il pienessere (consumare/usare). La felicità è scoprire ciò in cui ciascuno di noi è insostituibile e agire di conseguenza. I ragazzi vengono immessi in un sistema culturale che invece chiede a tutti la stessa cosa, e così a poco a poco il loro desiderio si spegne, il loro destino evapora. Quando arriva maggio, cerco di chiudere programmi e verifiche, per dedicare le ultime settimane di scuola all’esplorazione della loro vocazione attraverso esercizi, letture, test. La maturità, esame che promuove il 99,8% dei ragazzi ed è quindi inutile, si chiude con la paternalistica domanda di rito: «Dopo che vuoi fare?». Questa domanda, posta in corner e non a tutti (in genere solo ai bravi), indica l’inadeguatezza di un sistema educativo in cui la vocazione di ciascuno, invece di essere la prima, è l’ultima delle preoccupazioni. Dovrebbe essere la domanda, la più importante, quella che si pone al candidato appena si siede per sostenere l’esame: «Perché sei venuto al mondo?». Se dopo tredici anni a scuola con adulti educatori non hai scoperto i tuoi talenti e i tuoi limiti, che cosa abbiamo fatto con te? Ti abbiamo educato o addestrato? Fatto nascere o imbalsamato? Dove troverai mai il coraggio di vivere, anzi di essere vivo, se non sai neanche che cosa ti rende vivo? La domanda a cui questa generazione va allenata è questa: «Perché sei qui?» e non «Che cosa vuoi fare?». Il perché è ciò che poi genera qualsiasi che cosa e come: chi sa il perché può affrontare poi ogni come e che cosa. Il desiderio è quel principio di ispirazione che libera dalla bipolarità di cui è prigioniera questa generazione (e non solo): piacere – faccio solo quello che mi va – e dovere – prima o poi sono costretto a fare qualcosa. Oscillare tra piacere e dovere significa aver rinunciato alla libertà, lasciar decidere altro o altri, in balia di emozioni passeggere o costrizioni eterodirette. Per questo, poi, l’arena per esistere un po’ di più diventano i social, vite schermate utili a lenire il dolore di non essere nessuno, cioè di nessuno – solo chi appartiene esiste, solo chi si riceve nelle relazioni buone poi si avventura nella vita. Ma per fortuna la vita è generosa, e sempre qualcosa o qualcuno risveglia l’ispirazione, il desiderio, che ha dentro sia il dovere (chiunque ami qualcosa si impegna, costi quel che costi, per ciò che ama, altrimenti non lo ama) sia il piacere: per la persona ispirata tutto diventa piacere, anche la fatica, perché tutto punta a fare altra vita, creare e crearsi. Ricrearsi.

Ma come può questa generazione maturare un’arte di vivere, senza prima averne l’ispirazione, il desiderio o vocazione, che dir si voglia? E come può farlo se nessuno la aiuta a scovarla? Che me ne faccio di un ragazzo che sa chi è Telemaco, se poi non riesce a essere Telemaco (nome che vuol dire “colui che combatte da lontano”: per chi e cosa lotti tu da lontano, cioè fin da ora, anche se non lo ottieni subito?), ma si limita a essere Telefono (una vita schermata)? E qui il tema diventa politico, come segnalava sempre Leopardi: «L’ardore giovanile, cosa naturalissima, universale, importantissima, una volta entrava grandemente nella considerazione degli uomini di Stato. Questa materia vivissima, e di sommo peso, ora non entra più nella bilancia dei politici e dei reggitori, ma è considerata appunto come non esistente. Eppure esiste e opera senza direzione nessuna, senza provvidenza, senza esser posta a frutto». La politica di cui parlo non è quella dei politicanti, che spesso è solo farsa o retorica del potere, ma la cura operata da chiunque abbia affidate delle vite, un progetto da realizzare e non la gestione di risorse da esaurire.

Manca un progetto educativo, una paideia che abbia a cuore i destini di ciascuno e quindi di tutti. La scuola continua a usare il lessico militare con cui è nata a fine Ottocento, quando serviva a mettere dietro una scrivania dei contadini – appello, file, classe –, anziché aprirsi a quello della bottega – maestro, movimento, stile. Non basta più un sistema che punta ancora a intruppare piuttosto che individuare, nell’unico modo in cui ci si individua: all’interno di relazioni generative (sin da quando siamo bambini, impariamo a dire “io” dopo aver detto “tu”) e trovando lo stile originale di ciascuno. Leopardi, riferendosi ancora all’ardore giovanile, continua così: «Laddove anticamente era una materia impiegata e ordinata alle grandi utilità pubbliche, ora questa materia così naturale e inestinguibile divenuta estranea alla macchina e nociva, circola e serpeggia e divora sordamente come un fuoco elettrico, che non si può sopire né impiegare in bene né impedire che non scoppi in temporali e terremoti». Gli era già tutto chiaro: i giovani rivolgono l’energia inespressa del desiderio o contro gli altri o contro se stessi (chi non crea, de-crea; chi non genera, de-genera). Violenza, suicidi, dipendenze, patologie alimentari, abulie o iperattivismo, depressioni ne sono la crescente evidenza. Questa fragilità è fragilità del desiderio oppresso o represso. Può sembrare un quadro fosco, ma non lo è, perché lo riporta a una concretezza possibile. Infatti vedo fiorire o rinascere chi trova adulti disposti a chiedere: «Perché sei venuto al mondo?», adulti che ascoltano la risposta senza imporre copioni, e rimangono a far la strada insieme, anzi magari la aprono. La risposta dei giovani non è quasi mai: «Sono qui per comprare cose, ignorare tutto e tutti, e divertirmi più che posso». Queste sono solo fughe dal dolore profondo del desiderio dimenticato e quindi del destino mancato. Non sono ottimista, perché ritengo l’ottimismo l’ideologia paternalistica che parla dei giovani – mai con i giovani – così come del futuro, ovvero senza poi fare nulla. Sono, invece, pieno di speranza, che è azione concreta rivolta a ciò che ho per le mani. I giovani non sono il futuro, ma hanno il futuro in sé, se imparano a dargli un nome, il proprio: ciò che solo loro possono essere e fare, scoprendo che i talenti che hanno non appartengono loro, ma sono già del mondo che li sta aspettando – la loro unicità è per la comunità. Solo così scoprono che sono necessari al mondo, proprio facendo venire al mondo quello per cui sono fatti, e si tirano fuori dall’anonimato nichilista, consumista e individualista, diventano vivi non solo loro, ma tutto attorno a loro.

 

*Nell’immagine in evidenza una delle illustrazioni realizzate da Bianca Bagnarelli per il nuovo numero di LINC.

 

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