La seconda scrivania (back to the office)

Due sono state le scrivanie a disposizione di tutti quei lavoratori, in Italia e nel resto del mondo, che durante l’emergenza pandemica e nei mesi immediatamente successivi hanno potuto lavorare da casa – o da qualsiasi altra location – sfruttando il cosiddetto lavoro agile o da remoto, a seconda delle etichette. Ora che l’allentamento delle misure restrittive implementate in precedenza e il conseguente ritorno alla routine pre-pandemica stanno riportando migliaia di dipendenti in ufficio, molti lavoratori si scoprono riluttanti nell’affrontare questa transizione, trovando sempre più faticoso abbandonare quella seconda scrivania in favore della prima, quella dell’ufficio per l’appunto. Viene quindi da chiedersi se sia possibile conciliare in qualche modo queste due dimensioni, apprezzando al tempo stesso la flessibilità concessa dallo smart working e la possibilità di incontrare dal vivo colleghi e clienti quando si è in ufficio. Nuove professioni emergono quotidianamente, il mercato del lavoro sta evolvendosi così come le esigenze dei singoli occupati: perché non riconfigurare dunque l’organizzazione del lavoro anche da un punto di vista di spazi?

Prospettive dal mondo…

Secondo un articolo pubblicato all’inizio di quest’anno dal New York Times, sono stati circa 50 i milioni di americani che hanno lasciato i propri uffici e le proprie scrivanie, complici le recenti circostanze. Nel 2019 la percentuale di lavoratori statunitensi impegnata a lavorare a distanza si attestava attorno al 4%: l’anno successivo invece ogni 100 occupati, 43 lavoravano da remoto; un numero che sale – si arriva infatti a 65 – se si guarda ai soli colletti bianchi. Un segmento considerevole della popolazione lavoratrice degli States ha potuto quindi sperimentare il lavoro da casa, arrivando a provarne i benefici. La testata ha chiesto poi a 700 intervistati di indicare le ragioni per le quali preferissero il remote working e tra i pareri maggiormente diffusi figurano la possibilità di trascorrere più tempo con la propria famiglia, l’opportunità di coltivare passioni e interessi personali nei momenti rubati al tragitto giornaliero verso l’ufficio, il poter camuffare in maniera efficace una giornata storta e l’occasione di concentrarsi esclusivamente sulle proprie mansioni evitando le distrazioni tipiche di un ambiente comune. Al tempo stesso, però, in molti lamentavano la difficoltà nel separare in modo adeguato la vita professionale da quella personale: gli spazi dedicati al lavoro finivano per coincidere con quelli privati, destinati al riposo e alla convivialità, e le ore passate di fronte al proprio pc o telefono, costantemente disponibili, aumentavano vertiginosamente. Ma a mancare erano anche gli scambi con i colleghi di fronte al distributore di caffè e le chiacchiere in pausa pranzo, così come la possibilità di risolvere imprevisti e complessità bussando alla porta accanto e chiedendo un confronto. Uno schieramento bipolare per così dire, confermato dalla lettura dei commenti al pezzo (più di 550), a conferma della centralità del dibattito.

… e dall’Italia

Guardando ai dati raccolti e pubblicati in uno studio dall’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, i lavoratori italiani che usufruiscono attualmente della modalità di lavoro a distanza sono 3.6 milioni, 500mila in meno rispetto all’anno precedente. La dichiarazione della fine dello stato di emergenza legato alla pandemia nell’aprile 2022 ha infatti riportato in ufficio la quasi totalità dei dipendenti della pubblica amministrazione e delle piccole e medie imprese, comportando quindi una flessione nelle cifre. Secondo le previsioni, nel 2023 gli occupati da remoto dovrebbero crescere lievemente, per un totale di circa 3.63 milioni. Indagandone le opinioni, anche a queste latitudini, i giudizi paiono contrastanti e le esperienze molto spesso contrapposte: c’è chi sottolinea l’importanza fondamentale dei colloqui e delle riunioni in presenza per un superamento efficace delle divergenze e chi invece fatica a recuperare nuovamente i ritmi e le consuetudini tipiche dell’ufficio; quest’ultimo viene però apprezzato in alcuni casi per il diversivo che rappresenta rispetto alla quotidianità familiare, trasformata negli ultimi tempi dal lavoro a distanza di entrambi i partner. In termini di tempo e costi economici, lo smart working riduce alcune delle spese a carico dei lavoratori, che tuttavia sottolineano l’incapacità di occuparsi in maniera corretta sia degli obblighi professionali che delle incombenze personali quando occupati da remoto, con il rischio sempre più frequente di incorrere in episodi di burnout. Alcuni affermano come il rientro in ufficio li abbia spaventati da un punto di vista sanitario: entrare in contatto con numerose persone, condividendone gli spazi, ha acuito il timore per la diffusione del virus. Altri al contrario vedono nel lasciare la scrivania di casa l’occasione per tornare a prendersi cura della propria persona, avendo la possibilità di interagire socialmente ancora una volta.

Alla ricerca di un equilibrio

La strada da percorrere per affrontare al meglio questa inedita congiuntura sembrerebbe quindi quella del lavoro ibrido, in grado di combinare smart working e ufficio, con la settimana lavorativa divisa tra prima e seconda scrivania, in base alle singole esigenze. L’esperimento collettivo del lavorare da remoto condotto nei mesi di pandemia verrebbe in parte mantenuto e si farebbe così tesoro degli insegnamenti positivi insperabilmente regalatici dai vari lockdown vissuti. È infatti importante ricordare che i lavoratori tornati in ufficio in questi mesi o prossimi al rientro non sono gli stessi di prima: necessità, obiettivi e priorità sono mutati e all’ambiente lavorativo viene chiesto di riflettere tale evoluzione.

È quello che sostiene anche Bruce Daisley, ex vicepresidente di Twitter per l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa, quando ci ricorda di essere intenzionali rispetto ai nostri compiti professionali: secondo l’autore, infatti, bisogna interrogarsi su quali mansioni lavorative vengano svolte meglio a casa e quali invece in ufficio. A questa suddivisione dei compiti dovrebbe accompagnarsi poi un adeguato ripensamento degli spazi comuni, per aumentarne la capacità di accogliere le richieste dei dipendenti. Un impegno di cui i datori di lavoro italiani si stanno facendo carico: dalla ricerca citata in precedenza risulta che il 52% delle grandi imprese nazionali, il 30% delle PMI e il 25% della pubblica amministrazione abbia avviato, o sia in procinto di farlo, lavori di ammodernamento e ristrutturazione dei propri ambienti. Un ulteriore 26% per le grandi imprese, 21% per la PA e 14% per le PMI si dice interessato a questo tipo di iniziativa nei prossimi mesi, testimoniando l’attenzione verso il tema da parte degli attori coinvolti. Non tutti, però, sembrano disposti ad accogliere questo tipo di soluzione: Elon Musk – nuovo CEO di Twitter – ha comunicato ai dipendenti della piattaforma di prepararsi per circostanze difficili, eliminando la possibilità di lavorare a distanza e introducendo l’obbligo di passare almeno 40 ore settimanali in ufficio.

Per chi ha avuto la possibilità di provare il lavoro ibrido, l’alternarsi tra casa e ufficio ha contribuito al raggiungimento di risultati professionali significativi. Una dei protagonisti del portfolio fotografico di queste pagine, Sabrina Sangermani, advertising manager di Studio Editoriale, racconta: «lavoro generalmente tre giorni in ufficio e i restanti due da casa. La modalità di lavoro ibrida ha migliorato la mia efficienza in termini di obiettivi raggiunti. Per quello di cui mi occupo prevalentemente, il contatto con il cliente, il poterlo raggiungere è essenziale: poterlo fare in maniera veloce e facile perché tutti lavoriamo così mi ha davvero aiutato. Tornare in ufficio è però funzionale: la videochiamata può aiutare in tante situazioni, ma sono importanti anche i confronti e le condivisioni dal vivo con la redazione. Quello che apprezzo maggiormente del lavoro ibrido è il suo dinamismo».

Le fa eco Valerio Sommella, designer, anche lui ritratto per questo pezzo, che sottolinea la flessibilità concessagli dall’avere una scrivania in ufficio e una a casa: «una giornata trascorsa a lavorare in studio è produttivamente più vantaggiosa, soprattutto se i progetti ai quali mi dedico vedono coinvolti dei collaboratori; ma poter lavorare anche da casa mi facilita nella gestione quotidiana di altre incombenze. A seconda del tipo di compito che devo svolgere, scelgo lo spazio che ritengo più adatto: se la mansione è più operativa, lo studio; se l’attività è di pensiero o di ricerca, allora lavoro da casa».

Alessandro Vanoni, direttore della comunicazione di EY Italy, il cui scatto accompagna queste pagine, riflette invece sulla possibilità di trovare un giusto equilibrio attraverso il lavoro ibrido: «è una modalità che interseca numerose tematiche oggi centrali, dalla questione ambientale all’attrarre talenti che magari non si vogliono spostare. Essere flessibili ci permette di valorizzare al meglio spirito collettivo e individualità, combinando cultura aziendale – più facilmente veicolabile se in sede – e stimoli esterni, accelerando così la trasformazione. Credo che il lavoro ibrido sia un modello organizzativo naturale di questi tempi, ampiamente rinnovabile e sostenibile».

Barbara Garatti, archivista e curatrice d’archivio, dichiara: «il mio lavoro, per sua stessa natura, trae grande vantaggio dall’alternare momenti in loco, negli studi degli artisti, e attività da remoto, da casa. Sono due componenti fondamentali della mia professione: posso immergermi completamente nell’universo di un autore e avere la possibilità di osservarlo poi analiticamente, con un certo distacco, realizzando quel processo di sintesi che la pratica archivistica richiede». Questi aneddoti di vita professionale – rappresentativi di un certo clima generale – paiono dunque dimostrarlo: lavorativamente parlando, per il prossimo futuro due sono le scrivanie da mantenere. A casa e in ufficio.

*Tutte le foto sono state scattate da Claudia Ferri

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