Gli ingredienti della trasformazione digitale? Strumenti, processi e persone

Per un Chief Information Officer l’anno della pandemia è quello in cui più di ogni altro è stato necessario mettere a terra e concretizzare tutto ciò che la tecnologia digitale può offrire. Da un lato c’è l’esigenza di automatizzare i processi e di approfittare di hardware e software di ultima generazione. Dall’altro – con ancora più importanza – è cruciale rendere la trasformazione digitale un cambiamento culturale, che incida sul modo di pensare e di agire delle persone prima ancora che sui dispositivi con i quali si interfacciano e lavorano.

Alberto Storti, lei guida da diversi mesi il comparto IT di una grande azienda: come ha vissuto e che cosa ha significato per il suo lavoro l’arrivo dell’emergenza sanitaria?

La trasformazione digitale ha fatto un grande balzo in avanti, come si ripete spesso, e ManpowerGroup ha accelerato svariati progetti che erano già in cantiere. Altre iniziative, invece, sono state intraprese ad hoc. Durante la prima fase pandemica ci si è concentrati sull’ampliare lo smartworking a tutto il personale, affrontando la transizione in modo emergenziale e riuscendo a concretizzare lo sforzo dotando tutti i colleghi degli strumenti per lavorare da remoto.

Quali altri esempi ritiene importanti?

Un filone su cui ManpowerGroup si è concentrata particolarmente è quello delle assunzioni online. Fino al 2019, per una stessa persona, solo dal secondo contatto in poi l’assunzione era completamente realizzabile online, mentre oggi è possibile fin dal primo contatto assumere una persona completamente da remoto. In parallelo, si è anche lavorato sulla robotizzazione dei processi per note spese, acquisti e reportistica per i nostri clienti, oltre che sui chatbot per ottimizzare la fase di assunzione. Uno dei nostri più importanti clienti ha attivato proprio l’assunzione in modalità chatbot, con l’automatizzazione del processo di selezione con domande ad hoc per individuare i candidati con i requisiti richiesti. All’interno delle nostre filiali, poi, dal punto di vista hardware abbiamo colmato ciò che restava del digital divide, con fibra ottica ovunque.

A proposito di digital divide, sappiamo che gestire una trasformazione non è semplice, perché si mescolano questioni prettamente tecniche con altre di natura culturale. Quali sono le difficoltà più grandi e come le avete affrontate?

Così come la potenza è nulla senza controllo, anche l’innovazione è nulla senza agire sulla cultura e sulla mentalità delle persone. La difficoltà principale, per esperienza diretta ma anche dai racconti di clienti, fornitori e amici, è l’isolamento: nonostante gli strumenti tecnologici per essere in contatto, abbiamo dovuto cercare soluzioni per rendere meno pesante la separazione fisica.
Anche il modo di essere manager è cambiato, anche per chi già lavorava con team distribuiti su sedi diverse. Per far sì che tutto fosse più fluido è aumentata la frequenza degli aggiornamenti con i colleghi, sono stati rivisti i criteri di valutazione delle squadre di lavoro e delle persone. Soprattutto, si è dovuta accettare la perdita di controllo, legata al fatto di non avere il team sempre sott’occhio.

E quale strategia è stata sperimentata?

La chiave è stata trovata con la sinergia tra i diversi reparti, ad esempio risorse umane, marketing e IT. Sono stati fatti webinar e si sono organizzati gruppi di lavoro per rivedere tutti i processi in modalità digitale. Il digitale è sì una questione di tool, ma anche di flusso di lavoro, di processo e di formazione delle persone.
Ecco perché abbiamo in programma per il 2021 un grande percorso di formazione, oltre a iniziative simpatiche come il caffè virtuale e le riunioni sempre aperte in cui si può entrare quando si vuole per fare un break e conoscere nuovi colleghi. L’idea è di poter “bere un caffè”, in senso metaforico, con chiunque e al di là della distanza fisica: un’idea semplice ma dalle grandi potenzialità. Ricostruire lo spazio fisico nel digitale non è banale, ma con la sinergia dei dipartimenti e i processi a supporto si riesce bene.

In che modo si è concretizzata, invece, la trasformazione digitale delle vostre aziende clienti?

Da alcune realtà riceviamo sempre più richieste di interfacciamento sui flussi di dati e una forte spinta di accelerazione, ma la velocità non è la stessa per tutti. Quest’ultimo periodo ha stressato all’estremo tutte le inefficienze che esistevano, e ha fatto emergere le follie dei modelli pre-pandemia. Prima, per una riunione di 2 ore si andava avanti e indietro in aereo da Parigi, e oggi abbiamo aperto gli occhi su quanto fosse poco efficiente. Molti partner e fornitori lo hanno capito subito, mentre altri vanno più a rilento, anche perché non sempre le modalità smart sono attuabili ovunque.
Complessivamente però bisogna ammettere che la maggioranza delle aziende sta andando nella direzione giusta, con gestioni dei dati ottimizzata, meeting virtuali, meno viaggi di persona e integrazione dei flussi di lavoro.

È ottimista, insomma…

Al momento bisogna cercare di orientarsi in questa Italia a due anime, in cui ci sono situazioni diverse. I rapporti spesso sono un po’ mordi e fuggi, e si sente la mancanza del contatto umano. Mi piace usare la metafora del pendolo: in questo momento siamo andati dal massimo da una parte, in cui tutto era fisico, al massimo dall’altra parte, in cui tutto è digitale. Servirà trovare un nuovo punto di equilibrio.

Dal suo punto di vista, certamente privilegiato, come giudica nel complesso la trasformazione digitale che sta avvenendo nel nostro paese?

La digitalizzazione non sta andando veloce come spereremmo. Abbiamo visto con le app più recenti: tra errori e instabilità, è un disastro. La difficoltà però non è solo tecnologica, ma soprattutto di processo.  Non basta creare un’app e tenere attivo il Bluetooth. I pilastri dell’innovazione sono gli strumenti, i processi e le persone: basta che uno di questi elementi manchi o sia debole, e il volano non gira. Oggi le relazioni tra cittadino ed enti sono difficili, e se ho difficoltà io che – diciamo – sono del mestiere, non oso pensare a chi non ha un interesse o una formazione specifica in materia.

E se guardiamo al mondo del privato?

Le aziende private vedono la presenza di molte multinazionali che trainano l’innovazione. Abbiamo anche un bel panorama tra startup e piccole aziende che si lanciano all’estero e aiutano le imprese italiane a progredire. Sul privato non siamo messi male, insomma. C’è però un grosso gap per quanto riguarda processi e cultura: tutti parlano di tool, di strumenti, ma nessuno si occupa di persone e di processi, che come sappiamo sono ciò che fa la differenza.

Quali figure professionali – e con quali competenze – possono guidare e portare al completamento della trasformazione digitale? 

Nell’information technology ci sono certamente ruoli come il data scientist, il data analyst e il digital workplace specialist. Oltre al mondo dei dati, di cui si parla molto, c’è anche l’ecosistema che gira intorno a innovazioni, interazioni e processi. Un collaboratore felice è più produttivo, e in questo centrano esperti e designer, tanto di interfacce grafiche quanto di esperienze. Un’esperienza migliorata non sta solo in quello che si vede sullo schermo, ma anche in come si vive, si stampa, si svolge un processo. Credo occorra focalizzarsi sull’esperienza del cliente, del fornitore, del collaboratore, del candidato, utilizzando un’ottica ampia, end to end. ManpowerGroup è riuscita ad attivare i contratti completamente da remoto: è certamente un tool, ma anche un processo che coinvolge persone, team dedicati e un intero ecosistema. E l’ideare user experience è una competenza da sviluppare pure all’interno dei dipartimenti come risorse umane, affinché possano disegnare al meglio l’esperienza dei collaboratori, su questo Manpower è molto attenta.

Anche in tempo di pandemia la fine dell’anno è un momento non solo per fare bilanci, ma anche per guardare al prossimo futuro. Per il 2021 quali trend crede saranno rilevanti per la vostra realtà e più in generale per il mondo del lavoro?

Sicuramente lavoreremo sul front office, sulla selezione e sul recruitment, oltre che sul processo di candidatura. E poi anche sulla parte di gestione delle relazioni con i clienti (CRM) e sulla customer experience, sia come tool sia come processi.
In senso più generale, dovremo riuscire ad arrivare sempre più velocemente al candidato giusto, gestendo l’esperienza da remoto tramite firma virtuale, virtual onboarding e la creazione di spazi ricreativi a distanza. Ci sarà da rendere più efficienti i processi di recruitment di molte persone, rendendo allo stesso tempo l’esperienza brillante.

L’esempio a cui penso è Starbucks, che al momento dell’ingresso del cliente in negozio chiede se “in or out”, se consuma lì o porta via: la domanda è semplice, e in base alla risposta cambia completamente l’esperienza, con una macchina efficiente dietro le quinte. Nel 2021 ManpowerGroup, ma anche altre aziende e il mondo intero, andrà su questo trend. Nella nuova normalità, come viene chiamata, alcune cose della fase emergenziale resteranno, mentre altre ritorneranno come prima: il tocco umano è troppo importante per le persone per rinunciare in modo definitivo agli uffici e far lavorare tutti da remoto. La strada non è chiudere tutto, come fece Yahoo! a suo tempo, ma trovare un nuovo equilibrio in cui le vecchie follie siano abbandonate ma l’ufficio non resti vuoto. Il tornare almeno parzialmente in ufficio non è solo una volontà aziendale, ma anche quello che le persone desiderano.

Che consiglio darebbe a un giovane che si sta affacciando sul mondo del lavoro e vuole diventare parte della trasformazione digitale?

Le competenze hard sono importanti, come quelle che deve possedere un data analyst o un data scientist, ma soprattutto servono skill attitudinali: essere curiosi, non smettere di imparare e di apprendere tutto, leggere e coltivare una can do mentality. Quello che trovo vincenti sono le persone che hanno fame di fare le cose, non quelle pessimiste e disilluse. Poi naturalmente la capacità di lavorare in gruppo, non solo inteso come i vicini di scrivania ma anche in senso più trasversale. Per far funzionare un’impresa e migliorarla bisogna togliere la mentalità dei silo: non c’è un reparto IT o di risorse umane, ma c’è un problema del cliente da risolvere. E allora bisogna capire cosa migliorare, travalicando i confini tra i vari dipartimenti. Quindi in breve suggerirei di puntare su tre elementi: curiosità, can do mentality e lavoro di squadra.

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