L’economia europea ha un problema, che non nasce dalle decisioni di politica economica e doganale dell’amministrazione Trump, ma che ne viene acuito. Il panorama competitivo mondiale si sta trasformando in una terra dei giganti. Quelli cinesi sono nutriti dalla ferrea pianificazione statale, quelli americani da una libertà d’impresa che, da Bruxelles, può essere vista come sfrenata e che, in definitiva, porta alla grande crescita di un numero limitato di attori dalle dimensioni impressionanti. Si delinea, perciò, una partita tra piattaforme geografiche, in cui solo chi gode di una scala adeguata è in grado di toccare palla. E i giganti europei? Per ora sembrano una razza in via di estinzione e il nostro continente rischia di non avere più nessuno da mettere in campo. Nel 2008, dieci delle prime 20 imprese mondiali per dimensioni erano europee (Regno Unito compreso), quindici anni più tardi erano solo quattro. Se, nell’economia globale, ci sarà spazio per una terza piattaforma, oltre a quelle cinese e americana, non dobbiamo cullarci nella convinzione che questa posizione venga occupata dall’Europa. Nella Penisola Arabica i governanti locali hanno compreso appieno la necessità di affrancarsi dalla dipendenza dagli idrocarburi e stanno compiendo scelte economicamente lungimiranti. L’India, per quanto ancora indietro rispetto a molti parametri, mostra una dinamica interessante.
L’Europa deve muoversi in due direzioni. Da una parte, ha il dovere di costruire un mercato interno più grande ed efficiente di quello attuale, per recuperare la domanda che rischia di venire meno sui mercati esteri. Dall’altra, e indipendentemente dalle decisioni americane o di qualunque altro attore internazionale, l’Europa deve tornare a esprimere campioni continentali dalle dimensioni adeguate alla competizione globale e questo potrà avvenire solo attraverso un processo di fusioni e acquisizioni che interessi attori di paesi diversi. L’Italia e il settore bancario/assicurativo si sono mossi tra i primi e potrebbero servire da modello per una tendenza da cui dipende la competitività europea. L’interesse di Unicredit per Commerzbank riassume tutti i punti importanti. Unicredit non è più da tempo un attore puramente italiano. Con l’acquisizione di HypoVereinsbank nel 2005, ha messo piede nei mercati centroeuropei e si è dotata di una governance sovranazionale, mettendo a fuoco sistemi che la aiuteranno a gestire le differenze culturali, nel caso in cui la nuova fusione andasse in porto.
Quella che serve oggi non è solo una leadership multiculturale ma una vera e propria leadership globale. Le differenze culturali locali vanno naturalmente gestite; inclusione, rispetto delle diversità ed empatia sono caratteristiche imprescindibili, ma il punto è cambiato. Non si tratta solo di un movimento dall’esterno (di un mercato locale) verso l’interno, ma da un paese o un continente verso il mercato globale. La familiarità dei giovani con i contesti multiculturali aiuterà a rendere più facile il passaggio. Nelle università convivono culture estremamente diverse; gli studenti riescono spesso a fare almeno un’esperienza internazionale e dividono le aule con giovani di altre nazionalità. Difficilmente, perciò, subiranno uno shock culturale entrando in azienda.
Le vere difficoltà possono essere di tipo organizzativo. La dinamica per cui migliaia di giovani italiani vanno a studiare all’estero e migliaia di studenti stranieri vengono in Italia è perfettamente sana e contribuisce, anzi, a costruire una cultura di convivenza e di rispetto della diversità. Il problema nasce se gli italiani rimangono all’estero e gli stranieri tornano, invece, a casa. I numeri, purtroppo, raccontano questa difficoltà.
Università Bocconi e SDA Bocconi School of Management non sono diventati un ambiente compiutamente internazionale (sia per gli studenti che per i professori) in pochi mesi, né potranno farlo quelle imprese italiane ed europee che non hanno ancora fatto questo salto. Il primo passo è la diffusione della lingua inglese. Il suo utilizzo non significa perdita dell’identità nazionale, ma è imprescindibile se si vuole creare un’organizzazione con proiezione globale. Il secondo aspetto è molto pratico. Se tra culture ci può essere scambio e persino attrazione, questo non è mai vero per le burocrazie. Un’impresa globale deve essere in grado di facilitare la vita ai propri collaboratori internazionali. Infine, ma ancora più importante, la relazione con collaboratori di altre culture non può essere vissuta come un semplice rapporto transazionale, ma come una relazione di lungo periodo, caratterizzata da uno scambio reciproco. Nel nostro contesto, definiamo una realtà di questo genere una “scuola.” L’azienda dovrà trovare una parola diversa, ma dovrà mantenere la consapevolezza che, indipendentemente dalla nazionalità di ciascuno, il rapporto rimarrà saldo solo fino a quando si svilupperanno network non semplicemente utilitaristici, ma capaci di stimolare un arricchimento reciproco.
Il presente articolo è tratto dall’ultima edizione di LINC uscita a giugno 2025. L'illustrazione di copertina è stata realizzata da Gio Pastori.
Stefano Caselli è Dean della SDA Bocconi School of Management da novembre 2022, ed è Professore Ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari dal 2007 e Algebris Chair in Long-Term Investment and Absolute Return (dal 2019) presso l’Università Bocconi. È inoltre membro del Comitato di Direzione di SDA Bocconi School of Management dal 2006.